La Stampa 24.6.16
Un partito in evidente crisi di nervi
di Marcello Sorgi
Matteo
Renzi non ci ha pensato neppure un momento, dopo la sconfitta
elettorale, ad aprire una trattativa con gli avversari interni che
subito hanno cercato di approfittarne. Ma se serviva una conferma alla
scelta della linea dura, alla vigilia della direzione di oggi ne è
arrivata più di una. La minoranza bersaniana ha convocato un’assemblea
nella quale ha ufficializzato la richiesta, già avanzata
dall’ex-segretario, di una marcata svolta a sinistra nelle politiche del
governo, ha posto la questione della separazione tra la leadership del
partito e il ruolo di presidente del consiglio e ha annunciato, per
bocca dell’ex-capogruppo dei deputati Speranza, che sulle «questioni
sociali» i parlamentari anti-renziani potrebbero non votare più la
fiducia.
Un altro psicodramma si svolgeva nel frattempo tra i
«giovani turchi», la corrente del presidente del partito, nonché
commissario del Pd romano, Matteo Orfini, di cui la ministra della
Funzione pubblica Marianna Madia ha chiesto le dimissioni, giudicando
fallimentare la sua gestione della crisi Democrat post-Marino e
definendolo un «tappo» alla liberazione di nuove energie interne nel
partito romano. Conseguenze: reazioni indignate degli amici di Orfini e
intervento pompieristico del vicesegretario Guerini, dall’effetto quasi
nullo, se non quello di far capire che il pugnale di Madia non era stato
armato da Renzi.
Di fronte a un partito in preda a un’evidente
crisi di nervi, dopo il disastro di Roma e Torino e la perdita di metà
dei novanta comuni che amministrava prima del 19 giugno, Renzi si
prepara dunque a riproporre l’analisi della sconfitta già espressa a
caldo dopo i risultati (non è un problema di linea politica, ma di
cambiamento insufficiente rispetto alle novità proposte dai 5 stelle), e
a tenersi a distanza dalle beghe precongressuali tra le correnti, che
per la verità creano qualche problema anche nella maggioranza che
sorregge la segreteria. Si prepara un piccolo rimpasto al vertice del
Pd, ma sarà ancora Renzi a decidere chi entra e chi esce. E se la
minoranza davvero vuol far cadere il governo, si accomodi: si accorgerà
che non è così facile metterne su un altro.