sabato 25 giugno 2016

La Stampa 24.6.16
Perché l’occidente non può fare a meno della Russia

«Temo che sarò abbastanza isolato». Me lo dice con un filo di ironia Henry Kissinger, appoggiandosi al suo bastone, mentre si prepara a parlare di Russia in un recente foro euro-atlantico. Il vecchio protagonista della politica estera americana, e ancora oggi fine saggista sulle questioni internazionali, non ama certamente lo Zar di Mosca, Vladimir Putin.

Ma ritiene - come ha detto e scritto già varie volte - che la Russia sia comunque un interlocutore indispensabile di un mondo occidentale che dovrà gestire, nei decenni a venire, problemi assai più impegnativi: dalla competizione economica e geopolitica con la Cina alle varie declinazioni del terrorismo jihadista. Del resto, l’evoluzione della crisi in Siria dimostra che la Russia è già - per un’Europa vulnerabile e per un’America distratta - un interlocutore importante nello spazio mediorientale, segnato dalla crisi terminale dello Stato arabo. Ma questa stessa Russia, partner almeno potenziale sul fronte Sud dell’Europa, appare invece, sul fronte Est, quale una potenza revanscista e da contenere: in particolare per Polonia e Baltici, che puntano a rafforzare le misure già prese dalla Nato dopo la guerra in Crimea e la crisi Ucraina. Partner globale da coltivare o rivale regionale da dissuadere? Gli europei sono formalmente uniti sulla gestione del problema Russia; ma la realtà è che Paesi come la Germania e l’Italia sono più «kissingeriani» di altri. La Russia, come sempre, divide. E gioca a dividere: per quanto Putin abbia sostenuto, nel foro con Matteo Renzi a San Pietroburgo, di auspicare una Europa forte, la realtà degli ultimi anni è andata in senso diverso. Se non altro per l’appoggio offerto da Mosca a vari partiti nazionalisti ed euro-scettici del Vecchio Continente; tutti affascinati, non a caso, dal «neo-autoritarismo» di una Russia al tempo stesso post-sovietica e nostalgica del passato imperiale.
Tutto questo spiega il contesto, certamente non facile, della «campagna di Russia» avviata dal premier italiano. Quale ospite speciale del Forum di San Pietroburgo, l’Italia aveva l’onore ma anche l’onere di guardare al di là dei soli interessi economici del nostro Paese, che pure esistono e sono quanto mai rilevanti. Matteo Renzi lo ha fatto, ricordando che la vera questione strategica in discussione è il futuro stesso della relazione fra la Russia e l’Europa. La tesi del premier italiano è che la costruzione di una relazione di «buon vicinato» con il nostro vicino euro-asiatico risponda agli interessi strategici del Vecchio Continente e richieda uno sforzo preciso: per la necessaria applicazione (da parte di Mosca ma anche di Kiev) degli accordi di Minsk sull’Ucraina, per una valutazione politica (e non solo burocratica) delle sanzioni e per la riaffermazione dei principi messi a dura prova nello spazio grigio comune fra l’Europa e la Russia. Costruire un dialogo con Vladimir Putin ha senso, del resto, solo a queste condizioni: difendere gli interessi europei (o di larga parte di loro) senza sacrificare valori irrinunciabili (per tutti gli europei); consolidare il fronte Est dell’Europa senza perdere di vista il ruolo della Russia come potenziale partner globale (Siria, Isis, forniture energetiche). Sembra una difficile quadratura del cerchio. E lo è. Ma non è sbagliato tentare.
Renzi si è schierato così con una scuola di pensiero internazionale abbastanza precisa, quella che appunto potremmo definire «kissingeriana». Ma vi ha aggiunto una tradizione tutta italiana: la vecchia e abbastanza rituale vocazione del nostro Paese a proporsi come «ponte» verso interlocutori non facili. Perché una scelta del genere sia utile e credibile, e non vuotamente dichiaratoria, l’Italia deve tenere fermi alcuni principi essenziali, riferiti anzitutto alla crisi ucraina. Per quanti errori possano essere stati compiuti nella gestione del rapporto con la Russia, dal 1991 fino al varo della «Eastern Partnership» - e di errori ne sono stati compiuti parecchi - resta che le pulsioni di Mosca nel cosiddetto «estero vicino» non possono essere accettate o premiate. Il «ponte» con Mosca ha senso, insomma, se l’Italia non giocherà una partita solitaria (non sembra sia questo il caso); e se invece servirà a chiarire i termini di una relazione fra l’Europa e la Russia che ha bisogno di essere profondamente ripensata. Da entrambe le parti.
Per l’Europa non è un tema certo secondario: al di là dello schermo delle sanzioni (che verranno ancora prorogate), il «che fare con Mosca» divide appunto gli europei sull’asse Ovest/Est; e può dividere l’Atlantico. Al vertice di Varsavia della Nato, nelle settimane prossime, l’obiettivo sarà di evitare nuove frizioni del genere.
Per la Russia, diventare europea è sulla carta un destino: «Al russo - scriveva Dostoevskji - l’Europa è altrettanto cara della Russia: gli è cara ogni pietra di essa. L’Europa è la nostra patria, altrettanto che la Russia». Ma il destino va meritato, piuttosto che conquistato. E sono indispensabili i valori, assieme agli interessi, perché quella fra Europa e Russia diventi una storia comune. Per ora non è così: a suo modo, del resto, Putin rivendica un proprio «eccezionalismo». In realtà, la Russia è molto più debole di quanto non voglia apparire: l’orgoglio patriottico dello zar del Cremlino fa da contrappeso a una condizione economica difficile, anche come effetto del declino del prezzo del petrolio.
Che la Russia accetti i suoi limiti - in politica interna e in quelle che ritiene sue tradizionali aree di influenza - è una delle condizioni per un rapporto migliore con l’Europa. Da parte loro gli europei devono trovare, verso la Russia, un terreno di intesa: cosa niente affatto facile ma necessaria, per evitare un’altra fonte di fragilità strutturale del vecchio Continente. E per avere in Mosca l’interlocutore di cui abbiamo effettivamente bisogno.