La Stampa 24.6.16
Perché l’occidente non può fare a meno della Russia
«Temo
che sarò abbastanza isolato». Me lo dice con un filo di ironia Henry
Kissinger, appoggiandosi al suo bastone, mentre si prepara a parlare di
Russia in un recente foro euro-atlantico. Il vecchio protagonista della
politica estera americana, e ancora oggi fine saggista sulle questioni
internazionali, non ama certamente lo Zar di Mosca, Vladimir Putin.
Ma
ritiene - come ha detto e scritto già varie volte - che la Russia sia
comunque un interlocutore indispensabile di un mondo occidentale che
dovrà gestire, nei decenni a venire, problemi assai più impegnativi:
dalla competizione economica e geopolitica con la Cina alle varie
declinazioni del terrorismo jihadista. Del resto, l’evoluzione della
crisi in Siria dimostra che la Russia è già - per un’Europa vulnerabile e
per un’America distratta - un interlocutore importante nello spazio
mediorientale, segnato dalla crisi terminale dello Stato arabo. Ma
questa stessa Russia, partner almeno potenziale sul fronte Sud
dell’Europa, appare invece, sul fronte Est, quale una potenza
revanscista e da contenere: in particolare per Polonia e Baltici, che
puntano a rafforzare le misure già prese dalla Nato dopo la guerra in
Crimea e la crisi Ucraina. Partner globale da coltivare o rivale
regionale da dissuadere? Gli europei sono formalmente uniti sulla
gestione del problema Russia; ma la realtà è che Paesi come la Germania e
l’Italia sono più «kissingeriani» di altri. La Russia, come sempre,
divide. E gioca a dividere: per quanto Putin abbia sostenuto, nel foro
con Matteo Renzi a San Pietroburgo, di auspicare una Europa forte, la
realtà degli ultimi anni è andata in senso diverso. Se non altro per
l’appoggio offerto da Mosca a vari partiti nazionalisti ed euro-scettici
del Vecchio Continente; tutti affascinati, non a caso, dal
«neo-autoritarismo» di una Russia al tempo stesso post-sovietica e
nostalgica del passato imperiale.
Tutto questo spiega il contesto,
certamente non facile, della «campagna di Russia» avviata dal premier
italiano. Quale ospite speciale del Forum di San Pietroburgo, l’Italia
aveva l’onore ma anche l’onere di guardare al di là dei soli interessi
economici del nostro Paese, che pure esistono e sono quanto mai
rilevanti. Matteo Renzi lo ha fatto, ricordando che la vera questione
strategica in discussione è il futuro stesso della relazione fra la
Russia e l’Europa. La tesi del premier italiano è che la costruzione di
una relazione di «buon vicinato» con il nostro vicino euro-asiatico
risponda agli interessi strategici del Vecchio Continente e richieda uno
sforzo preciso: per la necessaria applicazione (da parte di Mosca ma
anche di Kiev) degli accordi di Minsk sull’Ucraina, per una valutazione
politica (e non solo burocratica) delle sanzioni e per la riaffermazione
dei principi messi a dura prova nello spazio grigio comune fra l’Europa
e la Russia. Costruire un dialogo con Vladimir Putin ha senso, del
resto, solo a queste condizioni: difendere gli interessi europei (o di
larga parte di loro) senza sacrificare valori irrinunciabili (per tutti
gli europei); consolidare il fronte Est dell’Europa senza perdere di
vista il ruolo della Russia come potenziale partner globale (Siria,
Isis, forniture energetiche). Sembra una difficile quadratura del
cerchio. E lo è. Ma non è sbagliato tentare.
Renzi si è schierato
così con una scuola di pensiero internazionale abbastanza precisa,
quella che appunto potremmo definire «kissingeriana». Ma vi ha aggiunto
una tradizione tutta italiana: la vecchia e abbastanza rituale vocazione
del nostro Paese a proporsi come «ponte» verso interlocutori non
facili. Perché una scelta del genere sia utile e credibile, e non
vuotamente dichiaratoria, l’Italia deve tenere fermi alcuni principi
essenziali, riferiti anzitutto alla crisi ucraina. Per quanti errori
possano essere stati compiuti nella gestione del rapporto con la Russia,
dal 1991 fino al varo della «Eastern Partnership» - e di errori ne sono
stati compiuti parecchi - resta che le pulsioni di Mosca nel cosiddetto
«estero vicino» non possono essere accettate o premiate. Il «ponte» con
Mosca ha senso, insomma, se l’Italia non giocherà una partita solitaria
(non sembra sia questo il caso); e se invece servirà a chiarire i
termini di una relazione fra l’Europa e la Russia che ha bisogno di
essere profondamente ripensata. Da entrambe le parti.
Per l’Europa
non è un tema certo secondario: al di là dello schermo delle sanzioni
(che verranno ancora prorogate), il «che fare con Mosca» divide appunto
gli europei sull’asse Ovest/Est; e può dividere l’Atlantico. Al vertice
di Varsavia della Nato, nelle settimane prossime, l’obiettivo sarà di
evitare nuove frizioni del genere.
Per la Russia, diventare
europea è sulla carta un destino: «Al russo - scriveva Dostoevskji -
l’Europa è altrettanto cara della Russia: gli è cara ogni pietra di
essa. L’Europa è la nostra patria, altrettanto che la Russia». Ma il
destino va meritato, piuttosto che conquistato. E sono indispensabili i
valori, assieme agli interessi, perché quella fra Europa e Russia
diventi una storia comune. Per ora non è così: a suo modo, del resto,
Putin rivendica un proprio «eccezionalismo». In realtà, la Russia è
molto più debole di quanto non voglia apparire: l’orgoglio patriottico
dello zar del Cremlino fa da contrappeso a una condizione economica
difficile, anche come effetto del declino del prezzo del petrolio.
Che
la Russia accetti i suoi limiti - in politica interna e in quelle che
ritiene sue tradizionali aree di influenza - è una delle condizioni per
un rapporto migliore con l’Europa. Da parte loro gli europei devono
trovare, verso la Russia, un terreno di intesa: cosa niente affatto
facile ma necessaria, per evitare un’altra fonte di fragilità
strutturale del vecchio Continente. E per avere in Mosca l’interlocutore
di cui abbiamo effettivamente bisogno.