sabato 25 giugno 2016

Corriere 25.6.16
LA SCOSSA che ha CAMBIATO l’euroPa
Lo 0,008 % del pianeta ha scompaginato tutto

Poco meno di un anno fa, migliaia di greci in piazza Syntagma cantarono e ballarono tutta la notte dopo il grande «No» al referendum sul salvataggio europeo. Il mattino dopo il governo che li aveva chiamati alle urne, si arrendeva alla troika. Ieri mattina a Lombard Street, nel cuore dell’antica City di Londra, i sudditi britannici che a livello nazionale avevano appena scelto di divorziare dall’Unione Europea con il 51,9 per cento dei voti non si lasciavano sfuggire neanche un lampo di trionfo negli occhi. Ciascuno attendeva alla propria routine come se la notte prima non fosse successo niente, eppure tutti sapevano che questa non è la Grecia: nel Regno Unito quando il popolo vota non si torna mai indietro sulla sua volontà.
La strada verso le urne
Le differenze fra i due referendum, paradossalmente, finiscono qui. Come un anno fa Alexis Tsipras, così il suo pari grado di Londra David Cameron aveva finito per vedere nella chiamata alle urne un diversivo tattico per divincolarsi quando ormai si sentiva alle corde. Il premier di Atene non sapeva più come resistere alla pressione degli altri governi dell’euro, quello di Londra doveva gestire una minaccia anche più insidiosa: i suoi alleati di partito; in nome loro, ha scelto di giocarsi al tavolo verde il destino del Regno pur di non rischiare una sfida alla propria posizione di leader del partito conservatore e candidato premier.
Nel 2013 Cameron incassò il sostegno di molti dei suoi stessi parlamentari per un secondo mandato a Downing Street, in cambio di una promessa che a molti allora parve poca cosa: il referendum di ieri. Così l’uomo che aveva trasferito fra i Tory lo stile e l’oratoria di Tony Blair pensava di aver ricacciato nell’ombra anche gli ultranazionalisti dello Ukip.
Proprio come Tsipras, Cameron ha sottovalutato le implicazioni dell’ingranaggio che aveva innescato. Forse è solo colpa della legge delle conseguenze impreviste, capaci di generare effetti perversi milioni di volte più grandi dell’atto alla loro origine. Forse invece è solo un battito d’ali di farfalla nella foresta amazzonica, da cui parte lo spostamento d’aria capace di diventare uragano sulla Cina.
Con il referendum dell’altra notte le croci sulle schede di 638 mila persone o lo 0,008% dell’umanità — la differenza decisiva fra Remain e Leave — ha messo in moto spostamenti di migliaia di miliardi su tutti i mercati finanziari del pianeta e sulle risorse di miliardi di persone di centinaia di Paesi.
Dov’è caduto il Remain
Cameron non avrebbe mai immaginato in che labirinto si stava cacciando. Forse è stata la sua educazione patrizia da discendente di Re Guglielmo IV a ottundergli il sesto senso grazie al quale i veri leader avvertono gli umori del Paese. Dopo aver passato un decennio a distruggere, interdire e disprezzare tutto quanto sapeva di Europa (fino a bloccare nel 2011 l’inclusione del «fiscal compact» nei trattati europei), Cameron di colpo ha dovuto cambiare ruolo in campagna referendaria. Non è mai suonato credibile. Si è ridotto al «Project Fear», cercare di impaurire i suoi stessi elettori con le conseguenze economiche della secessione europea, incapace com’era di fornire una spiegazione positiva, plausibile e anche solo minimamente sentimentale sul perché anche gli inglesi hanno un destino europeo.
Né lui né i suoi si erano accorti di un rancore più profondo che stava mettendo radici nelle provincie del Regno. Dal 2004 sono cadute le clausole della Ue che limitavano la libera circolazione dei alcuni degli ultimi arrivati nel club: polacchi, ungheresi, cechi, slovacchi. Il centro studi Migration Watch in questi anni ha documentato, smentendo gli impegni del governo, una crescita dell’immigrazione che sta mettendo a nudo l’inadeguatezza di un sistema di welfare britannico martoriato dai tagli di Cameron e del suo ministro delle Finanze George Osborne.
Ai ritmi attuali nel Paese stanno entrando 330 mila stranieri all’anno e di questo passo nel 2018 due terzi delle autorità locali avranno carenza di posti per i bambini nelle scuole elementari. Per fare posto ai nuovi immigrati bisognerebbe costruire un appartamento nel Regno Unito ogni quattro minuti (anche colpa di politiche che limitano l’offerta per far crescere il valore delle case esistenti).
Dunque l’immigrazione è diventata l’arma contundente del fronte del Leave. Chi ha votato così, voleva soprattutto chiudere le frontiere. Eppure è successo qualcosa di strano: si sono schierate in massa con la Brexit soprattutto aree del Regno dove la presenza di stranieri è nettamente sotto la media: il Northumberland o Carlisle nell’Inghilterra del Nord o Boston e South Holland a Est (secondo il Migration Observatory di Oxford); al contrario si sono schierati molto di più per la permanenza nella Ue i distretti ad alta densità di immigrati, fra i quali tutta l’area centrale di Londra, Oxford e Cambridge. È una strana dissonanza. Fa pensare che il voto per il Leave contenga soprattutto un messaggio di malessere economico e di paura di chi si sente lasciato indietro, isolato in regioni un tempo industriali, mentre la Gran Bretagna si apre all’Europa e al mondo.
Dopo il divorzio
Il paradosso è che questo voto finirà per impoverire ancora di più chi già è più vulnerabile, e rischia di trattarsi di uno spreco drammatico. L’anno scorso per esempio il Regno Unito è tornato al record di 1,6 milioni di auto prodotte, raggiunto dieci anni fa, ma ora il settore rischia di crollare. Se Londra è fuori dal mercato interno europeo, le sue auto dovranno pagare un dazio del 10% per entrarvi e questo le metterà fuori mercato. L’indiana Tata ha già fatto capire che chiuderà degli impianti, Bmw rischia di fare altrettanto con le fabbriche della Mini.
Del resto lo sfondo è fragile: il debito totale dello Stato, delle imprese non finanziarie e delle famiglie in Gran Bretagna supera ancora il 300% del Pil e non è in calo malgrado una ripresa ormai nel suo settimo anno. Il Paese riesce a mantenere il suo tenore di vita solo prendendo in prestito dall’estero somme pari quasi al 5% del proprio reddito nazionale, ma con una sterlina ormai in caduta libera la Gran Bretagna troverà sempre meno creditori disposti a farle ancora fiducia. Per i ceti deboli, quelli che hanno creduto alle promesse del fronte del Leave, si prospetta una fase ancora più dura. Uscire dalla Ue significa per loro rinunciare anche ai requisiti minimi di protezione sociale sul lavoro che in Gran Bretagna prima non c’erano.
Il rapporto con l’Europa
È su questo sfondo che il nuovo governo dovrà ricucire un rapporto con l’Europa, qualunque esso sia. Il governo di Parigi e ancora più quello di Berlino non sono disposti a fare sconti. Se vorrà mantenere l’accesso al mercato unico da mezzo miliardo di consumatori, anche dall’esterno, Londra dovrà accettare il menù completo: inclusa la libera circolazione dei lavoratori dagli altri Paesi, proprio ciò che il referendum ha bocciato. Per questo adesso la Germania le offre solo un «accordo di associazione». Significa che la Gran Bretagna rischia di trovarsi tagliata fuori dal suo unico vero mercato di sbocco, con le banche della City e i fondi d’investimento privati del «passaporto» per operare con il resto d’Europa.
Nessuno se ne può rallegrare. È anche questo un sintomo di disintegrazione della struttura fondata con il Trattato di Roma nel 1957. È soprattutto un precedente destinato a creare nei mercati attesa per la prossima secessione di un altro Paese. Forse potrebbe convocare un referendum per l’uscita il leader populista olandese Geert Wilders, forse potrebbe farlo il governo nazionalista polacco. Di certo questa sindrome da declino colpisce in primo luogo i Paesi più fragili come l’Italia, soprattutto nei titoli azionari del settore finanziario che la Banca centrale europea non può proteggere. Non è un caso se nei corridoi di Bruxelles e nei mercati sia tornata l’ipotesi che l’Italia chieda prima o poi un sostegno leggero del Meccanismo europeo di stabilità per ancorare le proprie banche: ma è uno scenario che nessuno a Roma contempla.