La Stampa 23.6.16
La sinistra Pd ora pretende un cambio immediato di rotta e rifiuta poltrone di governo
di Carlo Bertini
In
un gioco di specchi in cui ognuno nel Pd prova a dare l’immagine
peggiore del nemico, i renziani gettano veleni e sostengono che quelli
della minoranza mirano alle poltrone, eccome. E che devono scegliere il
leader tra chi ha più cartucce e spara meglio al piccione, quindi lo
scontro è fisiologico fino al congresso. Gli altri sdegnosamente negano.
Dicono di non chiedere altro che un ritorno alle origini del Pd, ma
minacciano guerra fredda se non ci sarà una sterzata. Dunque il racconto
che oggi verrà fuori dalla sinistra Pd è che la minoranza rifiuta - se
mai dovessero arrivare - offerte di posti in segreteria e nel governo;
pretende da Renzi un cambio di linea politica, «altrimenti è inutile
sedersi insieme in un organismo dirigente». E altrimenti niente è più
scontato nemmeno i voti di fiducia a raffica su provvedimenti vari. Il
tema non è solo la rinuncia al doppio incarico premier-segretario che si
chiede a Renzi. Ma è innanzitutto l’economia: pensioni, sanità, Imu,
misure per la povertà, per le periferie.
Martedì sera si sono
visti a cena, oggi alle 17 i dissidenti duri e puri si riuniranno al
Nazareno, la sede del Pd, alla vigilia della Direzione: Speranza,
Stumpo, Epifani, Bersani in arrivo da Bruxelles, hanno già fissato i
paletti. «Non ci hanno più votato perché non è piaciuto cosa ha fatto
l’esecutivo da Imu a jobs act a scuola», sostiene Stumpo. E se «quelli
ci rispondono che il governo è di coalizione col centrodestra, noi
diciamo che bisogna trattare e mediare portando a casa provvedimenti con
una radice più di sinistra».
La sintesi è niente tregua e niente
poltrone, perché come spiega Danilo Leva, ex responsabile giustizia, «il
tema è la radicalità delle scelte, far capire da che parte stiamo e chi
decidiamo di rappresentare. E sia chiaro, non ci interessa di far parte
della segreteria o del governo». Tra le scelte radicali, una svolta sul
reddito di cittadinanza in quanto «non si capisce perché questa
battaglia devono intestarsela i grillini».
Insomma, se domani
molti attendevano la nascita di una segreteria rinnovata con l’ingresso
di pezzi forti dell’era Bersani come Vasco Errani, forse dovranno
attendere. Così come chi credeva che dalla segreteria fosse estromessa
la Serracchiani: le ultime danno uno schema immutato di due
vicesegretari, anche se a Guerini avrà il compito più politico, ovvero
il timone operativo del partito. Mentre Luca Lotti dovrebbe entrare, ma
non è detto si carichi di una responsabilità come quella
dell’organizzazione che assorbe energie a tempo pieno. E non è neanche
detto poi che domani Renzi annunci la rivoluzione degli assetti,
piuttosto si dedicherà all’analisi politica: chi gli ha parlato assicura
che andrà al confronto marcando un cambio di narrazione.
Della
serie, non tutto è risolto, molto è stato fatto, ma il problema è dare
risposte alle fasce che non ce la fanno. Cogliendo anche alcuni spunti
di Prodi, facendo intendere che al disagio si risponde con la crescita e
le riforme, una crescita però più attenta agli ultimi, con misure
sociali dunque. E se il premier vuol far credere di esser pronto alla
sterzata comunicativa per arginare la rabbia sociale è anche perché i
bersaniani non sono i soli a chiedere un cambio di passo: anche nella
maggioranza renziana, area «giovani turchi», cioè quelli della sinistra
lealista al premier, l’insofferenza cresce. Già Orlando lo ha fatto
presente a Renzi l’altra sera in consiglio dei ministri. E oggi riunisce
i suoi con Orfini. «Non dobbiamo stupirci del voto negativo delle
periferie», dice Daniele Marantelli. «Dobbiamo dare un’anima a un
progetto popolare, evitando che il Pd diventi luogo di scorribande con
eccessi di individualismo».