La Stampa 23.6.16
Il referendum può nuocere alla democrazia
di Ugo De Siervo
Per
capire gli esatti termini della scelta che è posta a ciascuno di noi
elettori dal futuro referendum sulla modificazione costituzionale
approvata dal Parlamento, ma senza la maggioranza qualificata dei due
terzi, occorre in via preliminare rifuggire dall’uso dei vecchi trucchi
retorici di rappresentare in termini impropri o del tutto esagerati il
contenuto della riforma o le sue finalità. Scrivere che l’obiettivo
della riforma sarebbe addirittura l’eliminazione dell’instabilità
politica, della lentezza decisionale e dell’incertezza dei diritti è
davvero illusorio e falsante, perché questa riforma, pur assai ampia,
non riguarda affatto temi del genere e addirittura contiene alcune
innovazioni che sembrano andare in tutt’altra direzione. Ed, anzi, a
esaminarla davvero, emergono perfino gravi rischi di un complessivo
peggioramento della nostra democrazia.
I contenuti fondamentali
della riforma sono, infatti, l’eliminazione del cosiddetto bicameralismo
eguale e paritario a favore di un bicameralismo diseguale, che dovrebbe
essere rappresentativo delle istituzioni territoriali; la modificazione
di molte fonti normative dello Stato; la profonda riforma dell’attuale
ordinamento del nostro regionalismo; l’eliminazione del Cnel e delle
Province; alcune modificazioni relative al Presidente della Repubblica
ed alla Corte costituzionale.
In tema di Senato, rifiutato il
modello del monocameralismo, in modo assai confuso si è fatta la scelta
della Camera rappresentativa del pluralismo territoriale; mentre si
esclude che quest’organo debba “dare la fiducia” al governo, a cui
quindi basterà quella espressa da parte della Camera dei deputati (in
cui la nuova legge elettorale dovrebbe garantire l’esistenza di una
sicura maggioranza), molto dubbio è che il nuovo Senato rappresenti
autorevolmente il nostro pluralismo territoriale: 74 consiglieri
regionali e 21 sindaci, scelti dai Consigli regionali (e non dagli
elettori) per fare i Senatori «a tempo limitato» (dovrebbero continuare
ad operare nei loro enti) e cinque Senatori di nomina presidenziale
(privi di ogni rappresentanza dei territori) rischiano di costituire un
organo assai debole. Ma soprattutto non si capisce cosa esattamente
debba fare quest’organo a tutela delle autonomie territoriali: in
particolare le sue ridotte funzioni legislative paradossalmente non
riguardano mai le leggi che il Parlamento dovrà fare per distinguere le
competenze statali da quelle regionali, invece riservate alla Camera dei
deputati, sotto l’influenza dei ministeri romani e delle loro
burocrazie.
Ma poi quest’organo continua ad avere potere
legislativo pieno in alcune significative materie ed è incaricato di
svolgere penetranti funzioni di controllo sul funzionamento delle
istituzioni, il che è davvero contraddittorio per un organo che non deve
dare più la fiducia al governo.
In tutto ciò le procedure di
adozione delle leggi statali, con i diversi ed incerti ruoli di Camera e
Senato, si complicano moltissimo, con conseguente allungamento dei
tempi e con il rischio di una crescente litigiosità in materia (la Corte
avrà molto da lavorare).
Quanto alle Regioni ad autonomia
ordinaria (15 su 20) la loro autonomia legislativa, amministrativa e
finanziaria viene drasticamente ridotta in ambiti assai limitati e
comunque incerti (la conflittualità Stato/Regioni comunque continuerà
per la pessima redazione dei testi della riforma): con la scusa della
necessità di porre rimedio ad errori ed esagerazioni della riforma del
2001, si opera in realtà una generale drastica modificazione riduttiva
dei poteri regionali che mette in forse le stesse originarie scelte
della Costituente e riduce le Regioni a poco più di grandi Province.
Tutto ciò equivale ad un forte ritorno indietro, verso un grande
accrescimento dei poteri e della consistenza delle amministrazioni
ministeriali. Ma forse il netto e confuso riaccentramento statale espone
pure a rischi alcuni diritti sociali (all’assistenza, alla sanità, alla
cultura, ad esempio) finora realizzati tramite le amministrazioni
locali.
Tutto ciò - per di più - escludendo da ogni analoga
disciplina le cinque Regioni speciali (Sicilia, Sardegna, Friuli-Venezia
Giulia, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta), che anzi appaiono
accresciute di poteri, malgrado che siano state sempre molto criticate.
Perfino la clausola di supremazia ed i nuovi controlli sugli organi
regionali (per non parlare della riduzione dei privilegi finanziari)
sono rinviati a quando questi enti consentiranno alle modifiche dei loro
ordinamenti.
Ma allora davvero perde di ogni razionalità il
nostro regionalismo e si introducono pericolosi fattori di polemica fra
le popolazioni dei diversi territori.
Nessun problema invece per
l’eliminazione del Cnel e delle Province, così come per la migliore
disciplina dei decreti legge o qualche maggior potere del governo e dei
soggetti sociali nei procedimenti legislativi. Ma nessuno acquista una
nuova auto per alcune buone innovazioni se in essa, e per di più in
parti essenziali, si rilevano tutta una serie di gravi difetti.
Infine
nella riforma costituzionale vi sono perfino alcune conseguenze assai
discutibili sull’assetto dei poteri di bilanciamento e di controllo: da
una parte l’aumento delle maggioranze necessarie per la nomina del
Presidente della Repubblica, anche dopo molteplici votazioni,
paradossalmente può favorire il governo perché il Presidente potrebbe
non essere eletto a lungo o essere infine il frutto di un’intesa su un
candidato debole; dall’altra la Corte costituzionale viene spinta in
ambiti più vicini alla politica (esame preventivo della leggi
elettorali; molteplici competenze nelle liti Camera/Senato e nei nuovi
vizi «formali») e la nomina di due giudici direttamente da parte del
Senato può contribuire a politicizzarne maggiormente la composizione.
In
conclusione, occorre ribadire che le revisioni costituzionali possono
essere opportune anche per adeguare saggiamente una Costituzione, ma che
ciò va fatto con estrema attenzione e precisione, specie là dove si
tenti una revisione ampia e complessa: nel nostro paese vi sono stati
ben 35 casi di revisioni costituzionali o di integrazioni
costituzionali, senza che si sia verificato alcun dramma anche quando
nel 2006 un’ampia riforma costituzionale è stata respinta dal corpo
elettorale. Quindi anche ora serve più sincerità valutativa e minor
terrorismo o demagogia.