Corriere 23.6.16
Senza vuoto non c’è invenzione senza memoria non c’è architettura
di Vittorio Gregotti
Un
capitolo del nuovo libro di Massimo Recalcati, Un cammino nella
psicoanalisi (edito da Mimesis), cammino che per Recalcati è soprattutto
quello che muove da Jacques Lacan, è dedicato alle arti e in
particolare alla pittura di Emilio Vedova con il sottotitolo del primo
paragrafo che è L’opera d’arte come organizzazione del vuoto, facendo
riferimento anche alla città di Venezia come «città sospesa nel vuoto
liquido e misterioso della laguna». Egli ricorda qui un episodio in cui
Vedova, per sbloccare un allievo paralizzato di fronte alla tela bianca,
interviene con uno spazzolone e una violenta macchia di colore su
quella tela.
Questo vuole significare che il vuoto non è un punto
di partenza dell’agire dell’arte ma è all’interno della fitta presenza
conscia o inconscia del codice della memoria (che a sua volta non deve
essere negata) che si deve porre il problema di produrre un vuoto nuovo.
«Perché un nuovo significante venga alla luce — scrive Recalcati — è
necessaria una quota di oblio, una dimenticanza, una sospensione
contingente di quel codice, anche se ogni atto creativo deve saper
mantenere, in una tensione feconda, memoria e invenzione». Confronto e
insieme oblio o, meglio, sospensione, sono ambedue necessari. È cioè
necessario seguire non l’ispirazione né la padronanza narcisista ma
l’arte praticata e l’emergenza della sostanza del reale da affrontare.
Nella
pratica artistica dell’architettura il telo bianco non è solo il vuoto
come memoria, come «città sepolta» ma è il contesto in cui si insedia il
nuovo con la sua rappresentazione dell’inconscio in quanto matrice, che
deve fondare la forma come evento, con la sospensione senza oblio del
luogo specifico, il quale rimanda sempre all’intera storia
dell’insediamento nelle sue forme diverse. La forma però non può mai
essere «la pellicola che riveste il significato del nuovo» ma deve
coincidere con la sostanza e la necessità dell’evento dell’opera.
Questo
segna anche una differenza importante tra i principi artistici delle
arti visive e quelli dell’architettura in cui la memoria, quel «vuoto»
che rappresenta l’insieme del passato è, nel nostro caso, connessa alle
specificità del contesto dell’esistente, della sua vicenda storica e a
quelle della propria pratica artistica ma anche al materiale delle altre
discipline necessarie alla sua realizzazione e degli usi da soddisfare
in cui si muove la dialettica tra autonomia ed eteronomia
dell’architettura e il cui gesto di «de-occlusione» investe molte
diverse memorie. Per questo l’essere architetto si misura con molti
«precipizi diversi». Peraltro «perché vi sia l’opera d’arte — come ha
sottolineato Lacan — è necessaria un’organizzazione formale del vuoto
per tutte le arti» anche se per l’architettura tale organizzazione non
può essere precaria e inoltre è assai più complicata in quanto implica
come materiali molte altre attività a loro volta organizzate ma per
altri fini.
È il prevalere di questi fini continuamente
sovrapposti e cangianti che sembra voler sostituire il «telo bianco»
della memoria con uno criticamente multicolore del presente in cui
affonda come frammento ogni pratica d’arte, che dovrebbe, al contrario,
scegliere i materiali del proprio fare e renderli parlanti
organizzandoli, senza separare l’arte dal suo antico legame con il
mestiere. In esso sono inclusi sia il ricordo cosciente che le
rivelazioni del passato che emergono nel tentare di costruire per mezzo
dell’opera un progressivo frammento di verità del presente.
L’arte
dei nostri anni sembra invece collocata tra gli spettri
dell’avanguardia e la preoccupazione per la visibilità dell’artista
nella cultura televisiva. Quello che è profondamente mutato rispetto
agli anni Settanta, quando l’artista pensava che il suo ruolo non fosse
più l’oggetto ma l’intervento sul mondo è, nei nostri anni, la sua
«s-definizione», divenuta quella del mercato necessario al globalismo
finanziario al potere come suo autentico committente, «s-definizione»
cioè capace di mutarne radicalmente senso e permanenza.
Nel saggio
di Massimo Cacciari Il tramonto di Padre Polemos, raccolto nel testo a
più mani Senza la guerra (Il Mulino), si discute del cambiamento di
senso della nozione di guerra che sembra essersi tramutata in numerosi e
complicati conflitti, con molte sovrapposte e contraddittorie ragioni.
Anche l’idea di pratica artistica sembra radicalmente essersi mutata in
una forma di caotica e temporanea pubblicità: del cliente e dell’autore.
In questo caso il nuovo anche in architettura non si confronta più con
il telo bianco della cancellazione conscia o inconscia della memoria
propria e collettiva per costruire una sua nuova permanenza, quanto
piuttosto nel multicolore cangiante dello stato del presente in cui
affonda ogni suo fondamento necessario. «Forse l’arte — scriveva Harold
Rosenberg negli anni Settanta — godrà per sentito dire solo della
longevità del folclore».