La Stampa 21.6.16
Giuseppe Berta
“Ma il vero sconfitto è l’establishment locale. Il vecchio partito non conosce più la città”
Lo storico dell’industria Berta: la riconversione si è sentita solo in centro
intervista di Francesca Paci
Giuseppe
Berta conosce come pochi Torino, sulla cui inevitabile metamorfosi
industriale scrive da almeno vent’anni, da prima ancora che il
cambiamento si materializzasse. Docente di storia contemporanea
all’università Bocconi ed ex direttore dell’Archivio Storico Fiat storia
dell’industria, il professor Berta legge l’esito del ballottaggio
Fassino-Appendino come la fine di un ciclo: «E’ venuta meno l’armatura
della città, la grande trasformazione da città manifatturiera ad altro è
stata interrotta dalla crisi e da allora non è più ripartita».
E’
vero che la chiave di lettura di questo voto è il caso Torino, dove il
Pd ha perso pur avendo una lunga storia di buon governo?
«Torino
ci dice che la politica tradizionale non paga più. Fassino è un politico
di lungo corso ma oggi è cambiato il modo di fare politica. Tutto vero
ma questa riconversione si è sentita solo in centro. Le periferie hanno
pagato la distanza con un forte senso di esclusione».
A Fassino viene imputata la responsabilità di aver creato una distanza tra i centri di potere e le periferie, la gente. E’ così?
«C’è
anche un fatto d’età. La dirigenza della città è anagraficamente
vecchia, non conosce quarantenni. Troppo a lungo l’alibi è stato quello
di un’assenza di giovani qualificati ma non è vero, se stai rinchiuso
nel tuo circolo non li vedi. Invece Torino è piena di quarantenni
capaci».
Se uno va a Torino oggi vede una città pulita, con la
nuova metropolitana che funziona, buoni asili nido pubblici, periferie
meno degradate di vent’anni fa. E allora?
«Non è così, non
conosciamo più la città. C’è un tram, il numero 3, parte dalla bella
pre-collina borghese e arriva alle Vallette, periferia estrema. Il tram
numero 3 è un viaggio in una società segmentata da cui vedi cambiare
scenario in poche centinaia di metri. Un epidemiologo ha calcolato che
la speranza di vita di uno che abita in pre-collina è di 7 anni
superiore a quella di uno che sta al capolinea, alle Vallette. Il senso
di disparità si è acutizzato, la crisi ha visto la forbice sociale
divaricarsi molto più a Torino che altrove».
A Roma si è parlato tanto di Olimpiadi, nella Torino di Chiamparino si fecero quelle invernali del 2006: funzionarono, giusto?
«Come
tutte queste manifestazioni, le Olimpiadi hanno due facce: c’è un
elemento positivo, Torino ebbe allora i riflettori del mondo, ma c’è
dell’altro. Dopo il 2006 è mancata la continuità nella ricerca delle
risorse, la trasformazione implicava andare avanti a investire nella
riqualificazione e invece la corsa si è interrotta. La colpa è
certamente della crisi ma accanto c’è quella delle amministrazioni
locali che non hanno inserito nel processo nuove risorse sociali».
La sconfitta di Fassino è la sconfitta del Pd di Torino o dello stile Renzi?
«Il
premier si è comportato male con Fassino, scaricandolo alla svelta come
i generali napoleonici con le truppe sconfitte. Ma ad onor del vero
queste elezioni torinesi sono state un referendum pro o contro
l’establishment locale e non pro o contro Renzi».