mercoledì 15 giugno 2016

La Stampa 15.6.16
“I politici hanno le armi ma il potere è degli artisti”
Harvey Keitela Taormina racconta la sua vita e il suo cinema “Noi americani e voi italiani con i film abbiamo formato il mondo”
di Fulvia Caprara

Il primo incontro con Martin Scorsese e le riprese di Lezioni di piano, gli inizi all’Actors Studio e il segreto del carisma, che non si può spiegare, ma «se hai la fortuna di possederlo puoi lavorarci sopra e imparare a usarlo».
Newyorkese, classe 1939, modi apparentemente ruvidi che nascondono sensibilità spiccate e inattese tenerezze, Harvey Keitel incontra il pubblico del Taormina Film Fest e si svela con generosità: «Oggi sono qui, ma non posso fare a meno di pensare a quello che è accaduto a Orlando, dove qualcuno con passioni e obiettivi diversi dai nostri ha ammazzato cinquanta persone. Sono convinto che non solo il cinema, ma tutte le arti possano servire a mostrare a gente come quella che esistono altri modi di vivere e altri scopi da raggiungere. I festival sono importanti, mi piace immaginare che se quell’uomo di Orlando fosse stato qui, avesse incontrato, scrittori, registi, attori, avrebbe scoperto un altro modo di vivere e non avrebbe mai fatto quello che ha fatto».
La cultura può avere ruolo cruciale, ma il potere è un’altra cosa: «Una volta, con altri colleghi, sono stato ospite di Putin. Ci disse: “Rispetto a noi, voi artisti avete molte più possibilità di influenzare il pubblico”. Risposi: “Però voi avete le armi, e le usate”». Le elezioni americane impongono valutazioni e prese di posizione: «Spero che i miei connazionali, e i marines con cui ho combattuto, facciano la loro scelta tenendo ben presenti i caratteri fondamentali del nostro Paese, il rispetto della democrazia, la libertà di pensiero, l’equità, la disponibilità ad aiutare i più deboli. Non vorrei proprio che i miei figli venissero spediti in guerra a causa dell’ego di qualcuno».
Del suo mestiere Keitel parla con passione, neanche un’ombra di fuoco sacro, piuttosto la sensazione di averlo avuto sempre nel sangue, da quando decise di iscriversi all’Actors Studio, la scuola che ha forgiato generazioni di talenti: «Facevo domanda, ma non mi prendevano mai, alla fine mi hanno accettato, e non so se hanno sbagliato prima o dopo... Una volta sono stato a Napoli, lì mi hanno detto che considerano la luce rossa del semaforo non come un ordine, ma come un suggerimento. Ecco, il famoso “Metodo” che si impara all’Actors Studio è più o meno questo».
Quando Scorsese gli chiese di interpretare in Taxi Driver il ruolo di Matthew detto Sport, pappone della giovanissima ragazza di vita Jodie Foster, prima provò a informarsi parlando con una prostituta che lo mandò al diavolo, poi trascorse due settimane con un vero magnaccia: «Grazie a quella conoscenza, convinsi Scorsese ad ampliare il mio ruolo».
Da allora, la serie degli incontri fondamentali non si è mai interrotta: «Quando ebbi la sceneggiatura del Cattivo tenente di Abel Ferrara, molto piccola e scritta a grossi caratteri, mi innervosii e la buttai nel cestino, pensavo fosse il solito ruolo di contorno e io invece volevo un protagonista. Poi l’ho ripresa... Abel è una persona molto profonda».
Di Jane Campion dice che è «una specie di strega buona», di Holly Hunter ricorda il «talento brillante» e quel problema di sordità a un orecchio che lo costrinse a recitare sempre da un lato e mai dall’altro, di Quentin Tarantino, di cui è stato produttore oltre che attore, rievoca la sceneggiatura delle Iene, un gioiello che lo colpì al primo sguardo.
Tra gli italiani cita prima Ettore Scola e solo dopo Paolo Sorrentino: «Il cinema italiano, insieme a quello americano, ha formato il mondo. L’arte conta, i politici, da soli, non possono farcela».