La Stampa 12.6.16
Dal flop del 3+2 al boom di corsi professionalizzanti
Il governo studia incentivi alle aziende per tirocini e accordi con gli atenei
di Gia.Gal. - I. Lomb.
«La
 prospettiva di una laurea triennale come c’è negli altri Paesi è 
fallita. I laureati non ottengono lavori ben retribuiti né troppo 
gratificanti. Insomma, sono come i diplomati di una volta» l’analisi di 
Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli trova conferma nei 
dati dal 2000 a oggi. Il picco storico è nel 2003/2004, quando cioè 
entra a pieno regime la riforma del 3+2, laurea breve più biennio 
magistrale (o specialistico). Dopo, la curva scende inesorabilmente. 
Colpa della percezione diffusa su un percorso universitario azzoppato e 
senza sbocchi concreti che spinge molte famiglie a non investire in 
formazione. Un’impressione condivisa da Luigi Forte, vicepresidente 
della Luiss e presidente dei sistemi formativi di Confindustria: «La 
cosa peggiore del 3+2 è che il biennio non specializza come dovrebbe e 
replica quanto si è appreso nel tempo precedente» dice Forte che da mesi
 gira le scuole italiane con conferenze intitolate «Studiare conviene?».
L’effetto
 è che si sono allungati i tempi per lo studio (cinque anni per 
laurearsi che in Italia in media diventano sette) e agli occhi degli 
italiani non funziona più l’equazione università uguale lavoro. Anche 
perché solo il 52,9% dei laureati risulta occupato a 3 anni dalla laurea
 (la media Ue nel 2014 era 80%). Se guardiamo ai diplomati, però, il 
dato scende al 30,5%. Infatti negli anni della recessione il numero di 
disoccupati tra i neodiplomati è quadruplicato rispetto ai neolaureati. 
Quindi completare l’università resta un vantaggio nel mercato del 
lavoro, anche di retribuzione.
I costi e la cattiva immagine 
dell’università che si è diffusa nel Paese, intanto, hanno favorito la 
nascita e l’affermarsi di canali alternativi, corsi che vengono 
avvertiti come un passaggio più semplice verso un’occupazione. E fa 
niente che non rilascino una laurea e che siano «diplomifici» a volte 
sospetti. Truccatori, osteopati, informatici, montatori e tecnici tv. 
Spesso sono anche il sintomo della proliferazione di lavori agganciati 
all’evoluzione economica e tecnologica, come il web design. Così le 
università si sono trovate spiazzate e per correre ai ripari inseriscono
 corsi professionalizzanti nel percorso di laurea.
Una toppa 
arrangiata o il segno di prime timide aperture al mondo che cambia? A 
Bari il rettore Antonio Uricchio illustra i piani per il futuro: «Stiamo
 progettando canali di possibile attrazione. Un corso di bioingegneria e
 di medicina nutrizionale. Il food e la salute sono temi oggi centrali, 
oltre a essere molto legati al nostro territorio». Il territorio offre 
nuove opportunità già colte, per esempio, dall’Università di Bologna che
 mentre sviluppa partnership con aziende locali ma internazionali come 
Ducati e Technogym, caratterizza la sua sede di Ravenna con studi 
incentrati sul mare e l’ambiente, e quella di Rimini sul wellness. È un 
modo per dare senso alle sempre più numerose sedi distaccate delle 90 
università italiane che più di qualcuno considera troppe, anche se in 
verità sono in linea con le medie europee: «Il punto non è il numero 
delle sedi. Sono i doppioni che non vanno. Non hanno senso 90 sedi se 
sono tutte generaliste» dice il rettore Francesco Ubertini. Che senso 
ha, infatti, insegnare giurisprudenza ovunque se tra l’altro è la 
facoltà che ha subito il maggior tracollo di immatricolazioni: -45,6% 
dal 2004 a oggi? L’Italia è il Paese con più avvocati al mondo. Colpa 
anche della mancanza di orientamento e della formula dei tirocini in 
azienda durante gli studi. Una svolta che subisce le resistenze 
culturali delle accademie. «Perché lasciare ai privati e a realtà 
extrauniversitarie i corsi professionalizzanti che potremmo fa noi?». La
 domanda del rettore Ubertini se la sta facendo il governo che in vista 
della prossima legge di Stabilità studia forme di incentivi per 
università e aziende che stringeranno accordi tra loro. Le prime 
ricaveranno punti di merito utili nella competizione tra atenei, le 
seconde sconti contributivi se faciliteranno stage e assunzioni tra gli 
studenti.
 
