Il Sole 12.6.16
La disuguaglianza studia all’ultimo banco
di Luca Ricolfi
Di
disuguaglianze non si smette mai di parlare. Ci sono le disuguaglianze
economiche, le disuguaglianze sociali, le disuguaglianze nella salute.
Ci sono le disuguaglianze nel capitale ereditato dalla famiglia, nelle
opportunità di vita, nel talento individuale. E ci sono, naturalmente,
le disuguaglianze nel livello di istruzione, ossia nei titoli di studio
che ognuno riesce ad aggiudicarsi.
C’è un tipo di disuguaglianze,
tuttavia, che è enormemente cresciuto negli ultimi venti anni, e di cui
nessuno parla. Un tipo di disuguaglianze che regala a una minoranza
della popolazione una vita piena di opportunità e di soddisfazioni,
mentre impone alla maggioranza un’esistenza difficile o comunque piena
di limitazioni.
Di che cosa si tratta?
Non c’è un termine
condiviso per designare questo tipo di disuguaglianze, ma io le osservo
quotidianamente nel mio lavoro di docente universitario che da anni
insegna materie relativamente complesse (analisi dei dati e matematica) e
ha a che fare sia con le “matricole” (gli studenti appena diplomati che
si iscrivono all'università) sia con gli studenti che stanno per
laurearsi. Possiamo chiamarle, molto approssimativamente, disuguaglianze
di conoscenza; oppure “disabilità cognitive”, in omaggio al lessico in
voga.
È imbarazzante descriverle, perché hanno raggiunto livelli
che mi verrebbe da definire umilianti, livelli che peraltro i test
correnti, più o meno standardizzati, non sono assolutamente attrezzati
per misurare in tutta la loro ampiezza. Devo però fare una premessa,
prima di tentare una descrizione. La materia che insegno, per essere
compresa e padroneggiata a un livello accettabile, richiede un discreto
grado di organizzazione mentale. In buona sostanza capacità quali:
padronanza della lingua, astrazione, ragionamento, manipolazione di
simboli astratti, memorizzazione. È chiaro che simili capacità, come
qualsiasi altra (compreso saper ballare, suonare uno strumento, o sciare
in neve fresca) non possono essere possedute da tutti nella stessa
misura. Il punto, però, è che quando vengono messe alla prova da un
esame universitario si rivelano distribuite in un modo mostruosamente
ineguale fra gli studenti. E dico questo non nel senso che ci sono
studenti molto più bravi di altri (è sempre stato così), ma nel senso
che, al giorno d'oggi, almeno la metà degli studenti non ha
assolutamente, neppure alla lontana, la preparazione di base che - in
teoria - dovrebbe possedere in virtù del certificato che esibisce
(diploma di scuola secondaria superiore). Spesso non ha neppure la
preparazione che ci si aspetta da chi si è fermato alla scuola media
inferiore. E in un numero di casi tutt’altro che trascurabile non ha
nemmeno le competenze che, sulla carta, dovrebbero essere trasmesse e
garantite dalla scuola elementare (ad esempio far di conto e non
compiere errori di ortografia). All’attonito docente universitario può
persino accadere di trovarsi di fronte uno studente che non sa eseguire
una sottrazione elementare (1-5), o non sa addizionare 12 e 8 e deve
ricorrere alle dita per arrivare al risultato (naturalmente quest'ultimo
è un caso-limite, ma la domanda è: come ha potuto la scuola
“certificare” le sue competenze e rilasciargli un diploma?). Per non
parlare del titanico lavoro di correzione dell'italiano che incombe sui
docenti quando giunge il tragico momento della tesi di laurea (o meglio
di quell’esercizio che ci ostiniamo ancora a chiamare tesi).
Proverò
a dirlo in un modo ancora più crudo: per quel che vedo quotidianamente,
una parte degli studenti universitari ha un livello di organizzazione
mentale che non è, semplicemente, un po' meno buono di quello degli
studenti bravi, ma è abissalmente inferiore, come può esserlo il livello
di organizzazione mentale di un bambino di sei-sette anni rispetto a
quello di un adulto. E, cosa ancora più triste, in molti casi il gap
appare irrimediabile, in quanto chiaramente legato a percorsi scolastici
disastrosi, a occasioni di conoscenza clamorosamente mancate e che
difficilmente potranno ripresentarsi. Alla fine degli esami io chiedo
sempre “che scuola hai fatto?”, e le risposte che mi accade di ascoltare
sono terrificanti: quello che i tanti studenti in difficoltà raccontano
sugli insegnanti che hanno avuto, sul numero di supplenti che si sono
alternati in certe materie, sui programmi svolti e non svolti, sulle
licenze didattiche che tanti prof si sono presi, tutto questo
restituisce un quadro della scuola mortificante. Un quadro, sia detto
per inciso, in cui non si intravedono più, come un tempo, condizioni di
svantaggio sociale, o tragedie familiari e personali, bensì solo
prosaiche vicende istituzionali (e spesso familiari) di incuria e
superficialità, approssimazione e leggerezza. In sostanza: l’ordinario
modus vivendi di una società in cui, di fatto (anche se a parole lo
neghiamo), la cultura, la conoscenza, lo studio sono divenuti assai meno
importanti di tutto il resto.
Non mi interessa, qui, indicare di
chi è la responsabilità, che è chiaramente di tutti: genitori,
insegnanti, politici e, naturalmente, studenti (il non-studio è anche
una scelta). Quello su cui vorrei attirare l'attenzione è invece
l'enorme diversità di destino fra i miei studenti. Quando li incontro e
quando ci parliamo, lo vedo ad occhio nudo: c'è chi quasi certamente ce
la farà, perché la scuola e l’università hanno strutturato la sua mente,
e c’è chi (salvo il caso in cui abbia una famiglia potente alle
spalle), avrà una vita lavorativa difficile, perché la scuola e
l’università hanno preferito rilasciargli un titolo senza occuparsi
seriamente della sua mente.
È strano. Da un paio di decenni
abbiamo deciso che le nostre sono “società della conoscenza”, non c’è
occasione in cui non ripetiamo che la conoscenza è la variabile
fondamentale, che da essa dipendono i destini delle economie come quello
degli individui; da anni e anni ci stracciamo le vesti, scendiamo in
piazza, firmiamo manifesti e appelli contro la (presunta) inarrestabile
crescita delle disuguaglianze economiche, e poi – chissà perché – di
fronte agli spaventosi divari di conoscenza fra i nostri giovani, che
certamente produrranno grandi disuguaglianze nelle loro vite, non
diciamo nulla, li accettiamo come se non esistessero, o non fossero
importanti. C’è qualcosa che non va. O sbaglio?