La Stampa 12.6.16
L’università in declino: studenti in fuga e tasse sempre più alte
Dal
2004 in Italia si sono perse 66 mila matricole, il crollo più sensibile
nelle isole e al Sud: siamo stati gli unici in Europa a tagliare
risorse e borse di studio durante la crisi
di Giacomo Galeazzi e Ilario Lombardo
Nel
Sud Italia si laurea meno del 20% dei giovani, numeri che in Puglia e
Sicilia si fermano al 14%, esattamente quanto l’Indonesia e il
Sudafrica. Per capire la malattia che ha svuotato le aule universitarie
in tutto il Paese si può partire da tante angolazioni: la crisi, il
lavoro che langue, lo scarso appeal delle lauree tradizionali o
l’affermarsi di corsi alternativi più professionalizzanti. Tutto vale.
Ma quello che forse ha pesato di più è il decennale disimpegno dello
Stato.
Negli ultimi anni tutti i premi Nobel per l’economia hanno
insistito su un concetto: per uscire dalla crisi senza le ossa rotte
bisogna investire in istruzione. Bene, è esattamente quello che l’Italia
non ha fatto. Dal 2008, anno di inizio della crisi economica globale,
il nostro Paese ha ridotto il finanziamento pubblico alle università,
che otto anni fa era di oltre 6 miliardi, del 22,5%. In Germania è
cresciuto del 23%. Contemporaneamente, in Italia, sono crollate le
immatricolazioni: dal 2004 si sono perse 66 mila matricole, circa il 20%
in meno, di fronte al quale quel +1,6% registrato dal rapporto Anvur
quest’anno è ben poca cosa. Un diplomato su due non continua gli studi. E
non è soltanto colpa della demografia, perché al netto della scarsa
natalità, la quota di matricole 19enni è passata dal 57% al 46%. In
questo viaggio tra gli atenei italiani, La Stampa ha provato a
ricostruire le cause di un declino che per qualcuno assomiglia molto a
una premorte.
Meno borse di studio
Le oltre trenta
università che hanno risposto al nostro giornale confermano l’emorragia
di iscrizioni al primo anno, con qualche eccezione concentrata nel
triangolo di 200 chilometri che va da Venezia a Bologna a Milano con
estensione a Torino, Trento e Udine. Quali sono, allora, i motivi di
questa fuga? Miopia dei governi, sacche di resistenza nelle accademie
sempre più distanti da un mondo scosso da innovazioni continue, baronie e
piccinerie burocratiche, sfiducia crescente delle famiglie verso il
tradizionale pezzo di carta in un momento in cui le spese vanno
razionalizzate e lo Stato non ti dà una mano per far studiare i tuoi
figli. «Ma a incidere di più è stato il combinato disposto di crisi
economica e aumento delle tasse universitarie che in Italia è stato il
più alto d’Europa». Gianfranco Viesti, ordinario di Economia a Bari, è
l’autore de «L’Università in declino», indagine pubblicata quest’anno
con la Fondazione Res. Partendo dal Sud, Viesti ha approfondito le
ragioni di quel dato che definisce «catastrofico» che ci inchioda
all’ultimo posto in Europa per numero di laureati: il 23,9% degli under
34 contro una media Ue del 37%. Anche la Romania fa meglio di noi (25%).
Con queste cifre l’Italia, impossibilitata a raggiungere entro il 2020
l’obiettivo europeo del 40% di laureati, ha dovuto ridimensionare il
traguardo al 26%. È l’ammissione di un fallimento.
«L’Italia ha
fatto il contrario di quello che andava fatto - continua Viesti -
aumentando le tasse mentre tagliava risorse al diritto allo studio». Ne
sa qualcosa Lorenzo Guastalli, classe 1991, studente di ingegneria a
Pisa che da un anno all’altro si è visto scippare la borsa di studio.
Colpa del nuovo Isee, l’ indice della situazione economica familiare che
dal 2015 include nel calcolo anche il patrimonio immobiliare. «Mio
padre è cassintegrato, mia madre non lavora. Però hanno rivalutato il
nostro appartamento manco fosse una casa di lusso. E così ho perso la
borsa di studio, anche se il mio Isee è rimasto bassissimo, ben sotto la
soglia richiesta dei 20 mila euro». Lorenzo viene da Piombino, città
ammaccata dalla recessione, e per lo Stato la sua casa lo rende
magicamente ricco: «Ho perso soldi, mensa e alloggio. Adesso abito in
una doppia, a 200 euro al mese. Qualcosa mi dà mio padre, ma per
mantenermi faccio ripetizioni. Ovviamente in nero». Dopo le proteste,
qualche mese fa gli studenti sono riusciti a ottenere le variazione
delle soglie Isee ed Ispe per permettere a molti più studenti di
rientrare nei requisiti. Come Lorenzo altri 30 mila hanno perso la borsa
di studio. Qualcuno non ha resistito, però, come ha fatto lui, e ha
abbandonato gli studi.
Le Regioni e i soldi
In Italia esiste
anche una strana figura di studente che è l’«idoneo non beneficiario».
Sono il 25% dei meritevoli che però non percepiscono un euro. In Sicilia
e in altre regioni del Sud la proporzione è ribaltata: tre aventi
diritto su quattro non ottengono la borsa. Mentre in altre regioni il
100% degli idonei incassa il dovuto. A garantire il diritto allo studio
dovrebbero essere gli appositi enti, che invece dalla Sardegna alla
Sicilia alle Marche vengono continuamente investiti da inchieste
giudiziarie e commissariamenti. «In Puglia l’ente non ha erogato molte
borse perché non ha ricevuto fondi dalla Regione», spiega Silvia Savino,
rappresentante degli studenti a Bari che racconta di studentesse pronte
a lasciare se non avranno aiuti.
Il diritto allo studio in Italia
è sempre meno un diritto. Ed è il punto debole del sistema.
L’impoverimento progressivo delle famiglie non ha avuto compensazioni
per tutelare la crescita culturale dei figli: borse di studio, alloggi,
mensa, trasporti e servizi allo studente. Dall’inizio della crisi molti
Paesi europei hanno potenziato le risorse destinate agli studenti bravi
ma privi di mezzi, l’Italia no. Da noi i borsisti sono scesi del 9%, in
Spagna sono aumentati del 55%, in Francia del 36%, in Germania del 32%.
In Italia solo il 12% beneficia della borsa. In Francia è il 25,6%. E
pensare che tra chi riceve la borsa c’è un tasso di abbandono (altissimo
in Italia: 45%) del 13% in meno di chi non la riceve. Così il mito
della meritocrazia si va a far friggere? «Qualunque politica legata al
merito non può essere immaginata senza una base che dà a tutti le stesse
opportunità» dice Francesco Ubertini, rettore dell’Università di
Bologna.
I principali colpevoli del naufragio del diritto allo
studio costituzionalmente garantito sono le Regioni a cui è affidato
dalla Carta. Ma la causa è anche un meccanismo folle che produce
paradossi su paradossi. Dei 510 milioni di euro stanziati, 233 milioni
vengono dalla tassa regionale pagata al momento dell’iscrizione dagli
stessi studenti. È già la prima stortura. «Il 42% in media delle risorse
per il diritto allo studio proviene dalle tasche degli studenti. Non è
un controsenso?» chiede Alberto Campailla, leader del coordinamento
universitario Link. In realtà, essendo in teoria un sistema perequativo,
sarebbe una tassa pagata da chi ha reddito più alto a favore dei più
bisognosi. Ma le percentuali confermano che l’università è sostenuta da
sempre meno risorse pubbliche. Anche perché l’Italia dal 2005 ha
aumentato le tasse universitarie del 50%, passando da una media di
736,91 euro a 1.112 euro. Ma le contraddizioni non finiscono qui.
L’altra parte del diritto allo studio la pagano le Regioni con
stanziamenti propri. E così ognuno fa come gli pare. La Campania
governata da Stefano Caldoro è stata costretta dai giudici a restituire
agli studenti i soldi dovuti che aveva dirottato in altri capitoli di
spesa. Neanche un mese fa la Regione Sicilia, invece, ha provato a
spostare quelle risorse sulle riserve naturali. «I governatori
rispondono a logiche politiche: perché spendere soldi per gli studenti
se non porta nessun consenso politico?» dice Andrea Gavosto, direttore
della Fondazione Agnelli.
La terza parte di risorse, infine, viene
da un fondo integrativo dello Stato (162 milioni di euro). Il
meccanismo di ripartizione funziona così: le Regioni che assegnano più
borse ottengono fondi statali maggiori. Ciò innesca un circolo vizioso
per cui alle regioni del Sud, più deboli, vanno meno risorse che a
quelle del Nord. Il sistema amplifica le differenze invece di ridurle.
Ecco perché gli esperti chiedono che il diritto allo studio venga
gestito a livello centrale. E non solo loro. Il sottosegretario
all’Istruzione Davide Faraone ci ha provato in occasione della riforma
costituzionale suscitando l’ira dei governatori: «Sono favorite le
università più forti, e i soldi vanno dove ce n’è meno bisogno. Mentre
la situazione di Isole e Sud è devastante».
Non sarà un caso se le
ultime ricerche fotografano una realtà in cui le immatricolazioni
calano soprattutto tra i diplomati degli istituti tecnici e
professionali che alle spalle hanno famiglie economicamente più
svantaggiate. Stesso discorso a livello geografico. Meno matricole nelle
isole e al Sud. La sola università di Catania le ha dimezzate. In
questi anni a essere aumentata è invece la mobilità lungo lo Stivale: un
quinto dei diplomati meridionali si iscrivono in facoltà del Centro
Nord. Anche perché al Nord il diritto allo studio è garantito davvero.
Le Regioni pagano, le borse di studio ci sono, mensa e alloggi pure, i
trasporti funzionano. A Bari, Antonio Uricchio, rettore di uno degli
atenei con il più basso indice di valutazione, è sconfortato: «Questa
università dovrebbe svolgere un ruolo sociale in un territorio difficile
e invece non solo ha meno entrate ma riceve pure meno risorse
attraverso meccanismi di ridistribuzione all’inverso». Così ci si
arrangia e Uricchio per non perdere numeri e per acquisire uno spessore
internazionale è andato a Tirana a cercare studenti e intese: «Ormai
l’Albania è la nostra seconda casa». Ogni ateneo, però, ha i suoi
problemi. Anche i migliori. A Bologna Ubertini è alle prese con i mille
vincoli della burocrazia: «Ve ne racconto uno su tutti: avendo lo stesso
tetto dei ministeri per le auto di servizio, i docenti di agraria non
possono girare le nostre aziende. Un’altra? Per ogni contratto di lavoro
devo aspettare l’ok della Corte dei Conti che arriva dopo due mesi.
Come si fa così a competere con le migliori università straniere? E poi
ci si lamenta se i privati non investono da noi».
Sfiducia sugli sbocchi
Se
l’università soffre, la mobilità sociale si blocca: «Già era ridotta in
Italia, il forte calo delle immatricolazioni al Sud peggiora le cose»
spiega Francesco Ferrante, docente alla Luiss e pro-rettore al Job
placement a Cassino. Ferrante parla di «fattori culturali e barriere
psicologiche»: gli italiani, «soprattutto nelle famiglie meno istruite,
sembrano non credere più nell’università come strumento di avanzamento
sociale». E di ricerca del lavoro. «Si è innescato un sentimento di
delusione» concorda Gavosto. Persino tra chi è laureato. Luca Franco
Cardinali è un ingegnere di Ancona. La figlia Melissa sta terminando
l’istituto biologico sanitario: «E’ brava, ma non so se è utile
iscriverla all’università, troppo lunga e troppo teorica. Con mia moglie
stiamo pensando di farle fare un corso di traduzione simultanea».
Delusione e sfiducia sono sentimenti alimentati dalla disoccupazione
crescente certo, ma anche dalle scarse politiche di orientamento e dalla
difficoltà delle università di tenersi al passo con la velocità di
tecnologie che divorano ogni novità e creano nuovi mestieri. Secondo
Ubertini, bisogna affrontare il nuovo mondo con astuzia: «Stiamo vivendo
la quarta rivoluzione industriale, quella digitale. La formazione
professionalizzante è l’unica risposta concreta per l’ingresso in un
mercato del lavoro che ogni giorno è diverso dal giorno precedente».