La Stampa 11.6.16
Con i mercanti di uomini sulla rotta tra Mauritania e Canarie
Le
piroghe, chiamate “Air Madrid”, partono ogni notte cariche di giovani
senegalesi, maliani, guineani. Che prima vengono sfruttati e umiliati
dai negrieri
di Domenico Quirico
I migranti li ho
incontrati, quasi per caso, al mercato del bestiame di Nouackhott. I
manzi muggivano, un coro lamentoso che sovrastava perfino il fracasso
delle auto e degli uomini; e i belati di pecore e montoni erano come un
brivido di quell’insistente, doloroso muggire. Pacchi di zampe erano
ammonticchiati già in terra come lastre sudice, fegati sanguinanti e
violacei, cuori di bue duri e staccati come campane al battaglio
pendevano dalle lerce, innumerevoli bancarelle dei beccai. E poi
brandelli sanguinolenti di carne, stracci lanuti di pelle ancora
pendenti dalle carni vive, ciuffi di budella e poi sangue, sangue che
colava ovunque, e polvere, polvere e odore che stordiva. É lì che mi
avevano suggerito di cercarli: «Lavorano come garzoni per rastrellare
qualche soldo, per pagarsi la traversata in mare…».
Il primo che
ho visto è stato Souleymane, (ma non sapevo ancora che questo era il suo
nome) giovane, smunto, spaurito in quell’animalesco carnaio a cielo
aperto. Tirava un manzo sciancato, recalcitrante, gli occhi già pieni di
una consapevolezza della morte inevitabile e prossima che avresti detto
umana.
Un uomo alto, grosso passava di manzo in manzo, esaminava,
palpava: portava alla cintola un lungo acuminato coltello. Un cane
rossiccio lo seguiva annusando. Il beccaio, il padrone. Anche il ragazzo
aveva un coltello. Lo ha impugnato, un po’ esitante, con una mano
tenendo immobile per la corna la testa della bestia. Un piede puntato su
una coscia per fare forza ha immerso il coltello nel collo, ha spinto
dentro lentamente ritraendo la lama. Un fiotto di sangue è sprizzato,
rigurgitava. La bestia si dibatteva, spingava. Poi la testa è ricaduta.
Il ragazzo cercava invano di far fluire il rivo di sangue, ma il peso lo
opprimeva. Il sangue dilagava su di lui. Rosse di sangue erano le
braccia, le gambe. E l’aria, anche, odorava di sangue e di stabbio.
Allora
il padrone si è avvicinato, la collera gli torceva la bocca che era
come irrigidita in una smorfia. Si dimenava sussultava mandava urli di
inferno, gli occhi sbarrati, vitrei, terribili. Tutti si scansavano
spaventati. Ha abbrancato Souleymane per le braccia, lo scuoteva
rabbiosamente, con furia lo ha colpito fino a farlo cadere a terra. E
poi ancora, implacabile, lo ha fatto rotolare a calci. Adesso la gente,
clienti e altri beccai, che si era scostata impaurita per quella furia,
si è riavvicinata, ha fatto groppo e rideva, rideva della punizione
inflitta al ragazzo colpevole di aver tagliato male la gola al manzo, in
modo sbagliato, malaccorto.
Fu quando il giovane si rialzò e
inciampando scivolando riuscì a fuggire che mi accorsi che altri tre
ragazzi si allontanavano di corsa con lui. Altri giovani migranti. Li ho
raggiunti in un vicolo di sabbia dietro il mercato: erano più giovani
di quanto mi fossero apparsi all’inizio. Le facce erano macinate dalla
fatica, le bocche contraffate da pieghe amare, e ancor più ti addolora
perché son ragazzi e non dovrebbe esser così. Senegalesi tutti e
quattro.
Seduti per terra, la schiena al muro di una casupola,
scambiano di quando in quando una parola tra loro, ansando ancora per la
fuga. Bestie di tiro, dannati della terra. Mi guardano sospettosi.
Offro una bottiglia d’acqua, per iniziare. L’acqua e il pane: il modo
con cui puoi aprire il cuore di qualsiasi uomo, il linguaggio umile
dell’universo. Bevono avidamente, gli occhi sgusciati, le gote
gorgoglianti si passano la bottiglia, cola, con l’acqua, dai volti il
sangue raggrumato delle bestie. Si presentano, snocciolano i nomi.
L’ultimo ha un modo strano di guardare e di parlare. «È niente… una
notte, da bambino, si è sentito strisciare sulla faccia un serpente, la
lingua sottile, fredda … da allora il suo cervello non funziona bene… ».
La
Mauritania è una pista antica dei migranti, un’altra di quelle
immensità del loro viaggio dove mille miglia sono una piccola distanza.
Salgono a Nouadhibou, la seconda città del paese, a cercare l’imbarco
per le Canarie, per la Spagna. Da Dhaka un porto più a nord in otto,
nove ore si raggiungono le isole spagnole. Dieci anni fa erano migliaia
che facevano la fila agli sportelli della Western Union: passavano cifre
colossali in euro e in dollari. I soldi con cui venivano pagati, mille
euro a viaggio, i passeur e i capitani delle barche. Era l’epoca in cui,
per il traffico, si usavano i «cayucos», imbarcazioni grandi
ironicamente soprannominate «air Madrid».
Che tempi, quelli! Ogni
piroga era oro. Gli scafisti di quaggiù facevano soldi a palate, il
denaro correva come sabbia. Avevi una ciabatta frusta buona per la
demolizione? La tiravi fuori alla svelta, una risuolatura e via per il
mare, a fare quattrini. Anche i naufragi e i morti si allungavano in
liste lunghe a cui nessuno badava. Poi i controlli si sono fatti più
serrati, i numeri si sono ridotti. Ma questa resta, con le piste nel
deserto, verso la Libia, una via della Migrazione per senegalesi,
maliani, guineani.
Guardo i miei senegalesi. Ecco. Con i migranti,
ovunque li trovi, pensi: siete incollati a questa vita selvaggia, di
profugo, senza possibilità di uscirne, nemmeno per un giorno, nemmeno
per un attimo. Vita che senti attaccata a te, di continuo la vedi la
tocchi, sempre quella, ogni momento. La piena continua del Male. E sai
perché? Perché questi tuoi stracci di migrante ti vietano ogni
illusione, non ti lasciano evadere, volar via, mai, e se un sogno
accenna a sorgere, compiere la traversata arrivare laggiù, in Paradiso,
subito questo vestito ti scaraventa le carte in aria. Ma forse
Souleymane e gli altri, i mille e mille, che ho incontrato, non sono
qui, sono straordinariamente lontani, hanno abolito le distanze, creato
un giardino provvisorio di illusioni che è il solo modo di tenersi a
galla quando il cuore pesa troppo. Raccontarli invece impone di
semplificare, distruggere le illusioni, mostrare ogni cosa nella sua
nudità.
Souleymane è chiaramente il capo del gruppo. Faceva il
falegname a Port Louis. L’uomo è veramente eloquente soltanto quando
parla del suo mestiere. Smanioso di raccontare, i suoi discorsi sono
fatti del legno, dello sfrigolio della pialla, odorano di segatura. È un
migrante singolare: è partito non per miseria come i suoi compagni ma
perché non voleva più vivere con il padre. «L’esperienza degli altri non
mi serve, per sapere cosa vuol dire il fuoco brucia bisogna metter il
dito nel fuoco. Tutto ciò che costituisce l’orgoglio della generazione
di mio padre per me non vale niente. Non voglio più sentir parlare dei
loro modi di vestire mangiare divertirsi. Sì, i padri allevano i figli a
bugie».
Già, le generazioni sono davvero in conflitto permanente
ovunque. Tra una generazione e l’altra c’è la distanza infinita che
Pascal dice esistere tra i corpi e gli spiriti. Abitanti di pianeti
diversi. Ogni generazione scopre lei la vera scienza della vita e
l’esperienza vale solo per chi la fa. Le mille ragioni della Migrazione:
un fluido collettivo che risulta dallo scambio e dalla somma di singoli
fluidi, un’aura fatta di forza e di infelicità, di paralisi interiore e
di mobilità esteriore. Nessuna statistica è in grado di cogliere
l’essenza di questo fenomeno per noi così inammissibile, che sfugge a
tutti i calcoli. Povertà, guerre, oppressioni, certo: per quale ragione ,
dato che tutto è logico, l’equazione non torna? Non basta la consueta
geometria per un materiale così classico come l’essere umano? Che
tribolazione. Di che diavolo ha mai bisogno l’uomo?
Accompagno
Souleymane e i suoi compagni verso il porto del nord. Hanno abbastanza
denaro per tentare, ora. La strada dalla capitale è nuova, asfaltata di
fresco, pronta per il vertice della lega araba in programma tra poche
settimane: arrivano i re e gli emiri, mi annunciano giulivi nei caffè di
Nouackhott e quasi pare ai mauritani derelitti di sentire tintinnare
l’oro e i soldi di quei parenti ricchi dell’islam.
La spiaggia si
chiama la Gouera, è il luogo in cui le piroghe, le «pateras», caricano i
migranti per portarli al largo su navi più grandi. I pescatori seduti
sulla sabbia, taciturni e sonnolenti, fumano e guardano l’acqua, le onde
passare e attendono. Senza ansia attendono. Nessuno come il pescatore
sa la parte che il Caso ha nella vita. Ogni tanto il più giovane tra
loro trae da una reticella un grosso pesce verde nero, gli pianta il
piede sulla coda, immerge un coltello nella testa, la butta in disparte
in un piccolo mucchio. La loro piroga bianca con qualche antica
striatura di azzurro sulla murata sembra gettata lì a racconciare le
ossa, ammaccata scrostata tutte bugne, come levata fresca fresca dal
fondo del mare. In mandingo le chiamano «samba lakara». Le barche che
portano alla morte. La spiaggia è sterminata, con il lido bianco e
l’oceano azzurro che si incurvano fino al più lontano orizzonte,
assottigliandosi gradualmente in una sola linea vaporosa e indistinta.
La dove il cielo pare confondersi col mare la sagoma remota di una nave,
grande, sta sospesa nella luce del mattino con attorno un corteggio di
minuscole piroghe.
Un pugno di altri migranti è già lì, pronto:
tre uomini poderosi, ispidi, il cappuccio della felpa rovesciato sulle
spalle e una donna, scostata. Stanno accovacciati, le gambe in croce,
girano uno stecco di carne su una cassettina di ferro piena di brace,
lacrime di grasso colano su quella larva di fuoco. Ci squadrano con una
grinta agra, come timorosi per il loro cibo.
Il tempo passa senza
che nulla accada. La oscurità sembra non venire. Poi a poco a poco
conquista, qua e là, zone di cielo, preme, si pigia alacremente
sforzandosi di salire. Finalmente a ponente il sole si è disfatto,
lentissimamente; ma, come una sorgente inesauribile, continua a versare
fiotti di luce sanguigna.
Notte. Un vento agile e fresco.
Nell’aria grossa un segnale: una luce dalla nave al largo tremola là in
fondo. Accompagnerò i migranti fino alla nave, al largo. Tutto avviene
in silenzio, il motore pulsa lentissimo, sordamente. Onde lunghe,
rotonde sopravvengono e silenziosamente passano senza frangersi. L’acqua
fa ciac contro la prora, mollemente, pare uno strumento che suoni in
sordina. Una voce dalla nave, un fanale che si accende. E’ il momento,
per loro, di salire.
«Non hai paura Souleymane?».
«Io non ho paura di niente…».