sabato 11 giugno 2016

La Stampa 11.6.16
Il disagio sociale nelle urne
di Emanuele Felice

Il sistema politico italiano è ormai organizzato su tre poli, non più due. Questa ovvia constatazione spiega in buona parte il risultato del primo turno delle amministrative: quasi nessuno dei sindaci uscenti, non solo nei capoluoghi ma anche in molti comuni sopra i quindicimila abitanti, è stato riconfermato (esito che nel precedente assetto bipolare appariva fisiologico). Ma tale spiegazione non può certo bastare a consolare Renzi del suo magro bottino. Semmai è fonte di ulteriore preoccupazione.
La strategia renziana, volta alla conquista del voto moderato, è infatti impostata sull’assetto precedente, quello degli anni novanta e duemila: un sistema bipolare, in cui, ragionevolmente, vince chi occupa il centro; se non altro perché ha le spalle coperte, le eventuali frange essendo neutralizzate dal voto utile.
Ma questa strategia può essere perdente nel nuovo assetto. Renzi se ne sta accorgendo. Non soltanto perché il mitico ceto moderato si è pericolosamente assottigliato, sotto i colpi della crisi economica in Italia come nel resto d’Europa.
Ma anche per il fatto, specifico della politica italiana, che il partito di centro-sinistra si trova ora alle prese con un formidabile competitor, il Movimento Cinque Stelle, in grado di insidiarlo fra il suo stesso elettorato: con una proposta che non è affatto testimonianza o protesta, ma ambizione di governo. Gli approfonditi dati sui flussi elettorali di Torino, ma anche i risultati del voto romano, indicano chiaramente che questa tendenza è già in atto. E che all’origine vi siano motivazioni nazionali, e non solo locali, lo dimostra proprio il dato di Torino, come giustamente ha sottolineato Piero Fassino commentando a caldo il primo turno. Ed è appena il caso di aggiungere che al voto perduto in favore degli avversari si somma l’astensionismo: anzi è proprio qui che si riscontra (anche in vista del referendum di ottobre) la maggiore debolezza della strategia renziana, incapace di mobilitare il proprio elettorato.
A un problema nazionale si risponde con una strategia nazionale. Per Renzi è questione di toni, certo, di immagine, di rapporti con i dirigenti alla sua sinistra. Ma anche di azioni concrete. E proprio in merito alle azioni concrete, sin dall’anno scorso avevamo notato, commentando i magri risultati di Renzi nei sondaggi, come il premier non fosse stato in grado di offrire al Paese una prospettiva, che fosse modernizzatrice certo, ma coerentemente progressista. Da allora qualcosa è stato fatto: sui diritti civili ad esempio, complice anche un passo falso dei Cinque Stelle che ha permesso al premier di intestarsi in toto (e meritoriamente) il ddl Cirinnà; sull’Europa, per molti aspetti, sulla lotta al terrorismo e sulla gestione della crisi dei migranti, dove il profilo del premier è indiscutibilmente quello di un leader del riformismo europeo (forse addirittura del leader più autorevole oggi in quel campo). Sono rimasti però carenti due ambiti cruciali, per l’Italia e anche per l’elettorato del Pd: le politiche sociali, finora pressoché ignorate dal governo come non fossimo passati per una delle più devastanti crisi economiche della nostra storia; la lotta al malaffare e alla malapolitica. Da notare che in entrambi questi ambiti il Movimento Cinque Stelle offre risposte ben più convinte: nel caso delle politiche sociali solo a parole (ma è inevitabile, non essendo al governo); sull’etica pubblica, checché se ne dica, anche nei fatti. Anche così si spiega il successo elettorale della lista Cinque Stelle alle elezioni comunali di Torino in quartieri largamente operai come Le Vallette e Falchera, che rovescia un consolidato monopolio del Pd e dei suoi predecessori.
Resta poi, proprio della narrazione renziana, il tema della modernizzazione del Paese, per farlo uscire dal declino o almeno ripartire. Qui il governo ha messo a segno traguardi importanti, dalla riforma della pubblica amministrazione a quella costituzionale che, benché imperfetta, va probabilmente nella direzione giusta. Sono però riforme che non hanno una ricaduta immediata in termini elettorali, dato che i loro effetti si misurano nel medio e lungo termine. Renzi su questo fa bene a non mollare la presa, dimostra responsabilità e visione strategica che gli fanno onore. Può anzi ulteriormente rilanciare, scoprendo magari che ci sono strade per coniugare interventi di struttura e consenso: ad esempio la riduzione del cuneo fiscale (cioè delle tasse sui lavoratori e le imprese), che rimane fra i più alti in Europa; oppure le grandi infrastrutture al Sud, a condizione di riuscire a governarne il percorso; le risorse per la scuola e l’Università, anch’esse però da gestire in maniera diversa che in passato. L’anno scorso il premier ha perso un’occasione, dilapidando denari per l’eliminazione indiscriminata della tassa sulla prima casa – una misura populistica che era infatti tipica della narrazione berlusconiana – o per evitare l’aumento dell’Iva (siamo in deflazione!). Se vi saranno nuove risorse nei prossimi mesi, come pare, non commetta lo stesso errore: le metta sulla lotta alla povertà e gli interventi di struttura, non su sconti fiscali indiscriminati.