il manifesto 11.6.16
Perché si può votare 5Stelle
Ballottaggio. La sinistra e i 5Stelle a piccoli passi
di Guido Liguori
Il
voto del 5 giugno non può essere definito soddisfacente per la
sinistra, che conferma uno zoccolo duro del cinque per cento oltre il
quale oggi sembra non riesca ad andare. L’eccezione significativa è
Napoli, e ci tornerò più avanti. Mentre il risultato di Cagliari non
costituisce una eccezione, basandosi sulla alleanza tra sinistra e Pd,
improponibile se proiettata su scala nazionale. I casi più evidenti sono
quelli di Roma e Torino, con candidati noti e largamente condivisi come
Fassina e Airaudo.
Sarebbe ingeneroso imputare loro colpe
specifiche: questi due risultati non fanno che confermare un dato non
locale e non solo momentaneo. Né altre liste “più di sinistra” o “più di
movimento” possono vantare risultati significativi, anzi. Alcune
riflessioni e alcune ipotesi non scontate dunque si impongono.
I
5s sono gli unici a uscire vincitori dal voto, e il secondo turno,
comunque vada, non cambierà il fatto che essi sono oggi il primo partito
in Italia, o possono diventarlo. I 5s prosciugano al momento l’area
della protesta: lo si è detto e ripetuto, si è tentato e sperato di
annullare o aggirare questo fatto, ma nonostante la zona di insofferenza
per il renzismo si allarghi nel paese, la sinistra non intercetta lo
scontento e sono solo loro a trarne giovamento. Intanto annotiamo che il
movimento fondato da Grillo ottiene oggi il suo lusinghiero risultato
introducendo forse a sorpresa un elemento in controtendenza con la
personalizzazione della politica largamente diffusa: chi conosceva
Virginia Raggi o Chiara Appendino prima che iniziasse la campagna per le
comunali? È un fatto su cui riflettere. Esso indica che vi è un
movimento di popolo che si esprime attraverso perfetti sconosciuti,
tanta è forte la insofferenza per la classe politica. Con tanti saluti
alla “democrazia del leader”.
Un altro risultato importante che va
riconosciuto ai pentastellati è il fatto che essi hanno fatto saltare
il letto di Procuste a cui ci ha condannato nel 2008 il democratico
Veltroni, cercando di amputare le “eccedenze”, come il celebre bandito
della mitologia greca. Certo, tra le eccedenze c’era anche e soprattutto
la sinistra, e Veltroni è riuscito per il momento nell’intento. Ma
inaspettatamente altri soggetti sono usciti dal sottosuolo e hanno
gridato il loro no. C’è chi dice no a una idea di democrazia
“occidentale” a uso e consumo delle élites, dunque. In vista del
prossimo referendum questo è un dato decisivo, per difendere la
Costituzione e poi anche per affossare quell’Italicum che è la peggiore
legge maggioritaria che abbia mai visto questo paese, peggiore della
legge del fascista Acerbo del 1924 e della “legge truffa” del 1953.
Questo fronte di lotta, di difesa della democrazia, resta quello
fondamentale e va ricordato sempre, anche quando si vota per le
comunali, poiché la difesa della democrazia è più importante dei treni
in orario e delle strade pulite, che pure sono obiettivi a cui non
rinunciare.
Rileggendo quanto ho scritto, mi accorgo di aver usato
termini (“classe politica”, “élite”) propri di quella teoria elitista
che era sì una teoria reazionaria, ma con la quale già Antonio Gramsci
aveva capito che si doveva fare i conti, anche se certo con l’intenzione
di superarla, introducendo uno scarto democratico, una possibilità
reale di autogoverno, non prevista da quella storia vista dagli elitisti
come sempre uguale a se stessa. È contro una classe politica
eternamente solidale nella difesa del privilegio e dell’imbroglio, che
sono per Gaetano Mosca la vera essenza del parlamentarismo
trasformistico, che il popolo del sottosuolo si è ribellato.
È
contro la legge della “circolazione delle élite” (le élites invecchiano e
inevitabilmente vengono sostituite da élites più giovani, ma nulla
cambia nella sostanza) di cui parla Vilfredo Pareto, che agiscono senza
saperlo i peones che si ribellano nelle urne o nelle strade. È anche
contro la “legge ferrea della oligarchia” operante persino nei partiti
sedicenti di sinistra, legge denunciata dall’ex-militante della Spd di
inizio ’900 Robert Michels, che il popolo dei 5s ha riempito le piazze,
anche rispondendo a parole d’ordine demagogiche, alla famosa
“antipolitica”, che certo però non è nata sotto i cavoli.
Populismo,
si dirà. Certo. Ma non tutti i populismi sono uguali. Vi sono populismi
di destra e di sinistra. Vi è il populismo della Le Pen e il populismo
di Podemos, ad esempio: hanno segni, cifre, orizzonti del tutto opposti.
Se votassi in Spagna voterei per Izquierda Unida, senza dubbio. Ma sono
molto contento che questo fronte di sinistra (nel quale da molti anni
sono anche i comunisti) sia oggi alleato con Podemos nella coalizione
elettorale Unidos Podemos, una sfida politica che ha per posta il
governo del paese iberico. (E ripeto en passant che anche in Italia
l’idea di una “izquierda unida”, di un “frente amplio” come quello che
ha governato l’Uruguay per tanti anni, non era – e continua a non essere
– affatto peregrina per la sinistra).
Populista è anche De
Magistris, si dice. E infatti aggira i partiti e instaura un contatto
diretto col suo popolo. E attacca frontalmente il peggior populismo
esistente, quello di Palazzo Chigi, che non sfonda anche per il
servaggio che esibisce verso i vari potentati economico-finanziari. A
Napoli De Magistris vince: è l’unico caso in cui la sinistra vince.
Quando il sindaco di Napoli iniziò la sua avventura politica, fece
notare in una intervista i due ritratti che aveva alle spalle nel suo
ufficio: Che Guevara ed Enrico Berlinguer, il Berlinguer che andava in
barca a vela scrutando l’orizzonte, affrontando a inizio anni ’80 –
aggiungo –, dopo la brutta parentesi della “solidarietà nazionale”, il
mare aperto del “rinnovamento della politica”, della questione morale,
del ritorno alle lotte e ai movimenti. De Magistris non è né Che
Guevara, né Berlinguer, per carità. Ma l’indicazione simbolica, benché
parzialmente sincretica, era forte, e non è mai stata rinnegata. Piaccia
o no, se ne vedono i frutti.
Dunque, è possibile una alleanza tra
la sinistra e un partito populista, per far saltare il tappo delle
élites al potere? Forse sì. Ma ve ne sono le condizioni in Italia? No,
oggi no. Possiamo però provare a costruirle. Iniziando da queste
elezioni comunali. Che indicazioni di voto dare per i ballottaggi alle
compagne e ai compagni, a questo cinque per cento che ancora
ostinatamente si raccoglie intorno alle bandiere rosse della sinistra?
Nessuna indicazione, tutti liberi di disperdersi tra astensione, voto
masochista al Pd, voto in ordine sparso ai 5s? Sarebbe solo la non
scelta di chi ha paura di dividersi. Bisognerebbe invece, con coraggio,
fare un passo: offrire apertamente questi voti ai candidati 5s. In
cambio di cosa? Non di posti o di potere, certo.
In cambio di
gesti simbolici e politici (la collocazione a Strasburgo, ad esempio)
che facciano intendere, a noi e a tutti, che i 5s sono o vogliono
essere, per dirne una, antifascisti e antirazzisti. La sinistra è nata
due secoli fa per abolire il privilegio, per distribuire
democraticamente potere e risorse: ci dicano se questo ci unisce o ci
divide. Sarebbe, in caso di risposta positiva, un riconoscimento
reciproco.
I 5s credo non accetterebbero, oggi, come non ha in un
primo tempo accettato Podemos in Spagna l’offerta di alleanza di
Izquierda Unida. Beninteso, Podemos e 5s sono diversi. Ma la
cocciutaggine dei fatti è la stessa, e opera potentemente in Italia come
in Spagna. Non aspettiamo di subire gli aventi: prepariamoli.
Anche
molte compagne e molti compagni della sinistra che oggi giudicherebbero
questa alleanza improponibile dovrebbero pian piano iniziare a pensarne
la fattibilità e l’opportunità. Da qui potrebbe partire un discorso
nuovo per la sinistra in Italia.