venerdì 10 giugno 2016

La Stampa 10.6.16
Le giustificazioni degli uomini in cura
“Sono qui perché lei mi ha denunciato”
In Italia 9 istituti. Ma i centri antiviolenza: “Inutili e drenano soldi”
di Maria Corbi

Lo chiameremo Andrea, nome di fantasia, per raccontare una storia atrocemente vera, simile ad altre. A troppe altre. Uomini che maltrattano le donne, fino ad ucciderle e che sembrano moltiplicarsi. La prima parola che ti viene in mente quando parli con Andrea è «inconsapevole». Ti dice che è terribile quello che è successo alle ultime due donne ammazzate dai loro compagni. Non si sente parte del giro. «Io non ho ammazzato nessuno». Ma sua moglie è finita al pronto soccorso diverse volte prima di capire che doveva denunciarlo. «Io l’ho solo strattonata, spinta, certo questo lo facevo», ammette Andrea che ha iniziato a curarsi presso un centro di aiuto per uomini maltrattanti. Non una sua spontanea decisione, ma un consiglio del suo avvocato che lo sta assistendo dopo la denuncia. «Voglio cambiare», assicura. «Perché devo imparare a contenere la rabbia».
Il suo racconto procede per ammissioni e giustificazioni. Troppo doloroso ammettere quello che si è e che non si vuole più essere. «Io non ammettevo che lei uscisse con le amiche, diventavo pazzo. Immaginavo che parlassero di altri uomini, che lei venisse spinta a tradirmi. E quando scoprivo che aveva visto la sua migliore amica senza dirmelo, impazzivo. Non sopportavo il timbro della sua voce che si giustificava. E dovevo spaccare qualcosa, ma lei al massimo l’ho spinta. Non ho alzato le mani». Quando gli fai notare che spingere è alzare le mani, e che spesso dopo una spinta si finisce a terra o addosso a qualcosa, sta zitto. «Un anno fa lei è andata al pronto soccorso e ha detto che quella ecchimosi alla tempia se l’era fatta cadendo durante una nostra lite ed eccomi qui». In realtà chi lo segue ci spiega che la storia è un po’ diversa, che Andrea cerca di giustificare le sue azioni prima di tutto a se stesso. Lui considerava la sua donna una proprietà e non voleva condividerla con nessuno, neanche con la famiglia. Per trattenerla ha abusato di lei prima di tutto moralmente, facendola sentire una nullità, senza speranza. «Le contavo i soldi nel portafogli», racconta Andrea. «Volevo sapere come li aveva spesi». Tasselli di un rapporto malato, di un’ossessione, di una debolezza. «Spero tanto che mi perdoni», dice.
E il problema è che sono molte le donne che perdonano. «Molte compagne di uomini che sono in cura nei centri decidono di restare con loro», dice Alessandra Pauncz, psicoterapeuta, fondatrice del primo centro per uomini violenti, il Cam di Firenze. «La terapia di recupero è fatta di incontri individuali e di gruppo». «L’esperienza ci dice che alla fine del percorso la violenza fisica si interrompe, mentre è più complicato per il maltrattamento psicologico».
Oggi esiste «Relive», la prima associazione nazionale italiana che riunisce nove centri che attuano programmi per uomini autori di violenza di genere. «Circa l’85 per cento degli utenti arriva volontariamente, gli altri in seguito all’esecuzione di una misura penale», spiega la Pauncz. «Non è facile il cambiamento», ammette. «C’è un alto tasso di abbandono di uomini che non sono motivati».
Ed è per questo che dalla rete dei centri antiviolenza dedicati esclusivamente alle vittime monta il malcontento per queste esperienze che rischiano di competere con loro per la raccolta dei fondi. «Sappiamo che c’è questo tipo di obiezione - ammette la Pauncz - ma non ve n’è motivo visto che non esiste alcuno stanziamento a favore di questi centri dedicati al recupero di uomini violenti».
Sono tanti anche i giovani che chiedono aiuto, anche under 30 anni, rivela la psicoterapeuta: «Ragazzi che non riescono a tenere il confronto con le loro fidanzate, e che non sanno quello che fanno». Anche loro pericolosamente inconsapevoli.