Repubblica 10.6.16
Vent’anni di leggi, ma la strage continua
Dal ’96 tre reati per tutelare le donne. Che però restano senza protezione dopo la denuncia del pericolo
di Maria Novella De Luca
ROMA.
Le leggi ci sono, tutto il resto manca. Niente fondi, centri costretti a
chiudere, piano antiviolenza mai decollato, vittime senza tutela, e un
esercito crescente di bambini che si ritrovano improvvisamente orfani. A
vent’anni dall’approvazione nel 1996 della legge contro la violenza
sessuale, definita non più reato contro la morale ma finalmente reato
contro la persona, dopo la legge contro lo stalking del 2009 e quella
contro i femminicidi del 2013, le donne continuano a essere uccise con
la cadenza, impressionante, di dieci omicidi al mese, cinquantotto
dall’inizio del 2016.
E nel giorno dei funerali di Sara Di
Pietrantonio, bruciata viva dal suo ex, mentre la madre chiede giustizia
e altre morti affollano il bollettino dei femminicidi, i centri
antiviolenza e le avvocate che difendono le donne lanciano un grido di
allarme: «Lo Stato non riesce a proteggere le vittime». Perché quando
anche coraggiosamente le perseguitate denunciano, la giustizia ha tempi
così lunghi che in quell’attesa può accadere tutto. Alle mogli, alle
compagne, alle ex, ma anche ai figli, com’è accaduto a Taranto tre
giorni fa: Andrea, 4 anni, ucciso con un colpo alla testa dal padre che
aveva appena strangolato la moglie Federica. Barbara Spinelli, avvocata,
è autrice di un saggio famoso dal titolo Femminicidio che nel 2008 ha
importato in Italia il termine che oggi tutti usiamo, quest’anno
approdato anche nell’enciclopedia Treccani. «Non è un problema di leggi,
o di inasprimento delle pene: basterebbe applicarle fino in fondo.
Perché le norme antistalking funzionano, così l’ammonimento al partner
violento, gli ascolti protetti delle donne. Sono utili le aggravanti
previste dalla legge del 2013. Ma tutto questo viene vanificato se dopo
la denuncia, e prima che il persecutore venga effettivamente
allontanato, la donna non è protetta». E intorno a lei e ai suoi figli
non ci sono reti di supporto, perché le case rifugio vengono chiuse, e,
aggiunge Spinelli, «i dati ci dicono che in 7 casi su 10 le vittime
avevano denunciato più volte i loro i partner pericolosi». Una
sottovalutazione sia politica che giudiziaria dell’emergenza. A
cominciare dai fondi 2015/2016 stanziati per i centri antiviolenza e mai
distribuiti, e poi il piano del governo restato nei cassetti, gli
indennizzi mai approvati per gli orfani del femminicidio. E di una
prevenzione che non esiste, del silenzio nelle scuole. «Facciamo
continuamente l’elenco delle donne uccise – rivela Spinelli - ma si
tratta soltanto di una parte della verità: vittime sono anche le donne
che si suicidano per le violenze domestiche, o quelle che muoiono senza
denunciarle. Una strage silenziosa che nessuna statistica rileva».
Titti
Carrano, anche lei avvocata, è la presidente della rete Dire, che
riunisce 75 centri antiviolenza. «Siamo in prima linea da oltre
trent’anni, abbiamo un’esperienza enorme, eppure, mentre i femminicidi
diventano un’emergenza nazionale, proprio a Roma uno dei centri più
attivi viene chiuso. Non c’è la volontà politica di andare fino in
fondo. Un esempio: dopo la denuncia, nell’attesa che la giustizia faccia
dei passi, le donne corrono rischi enormi, perché non creare una corsia
preferenziale per questi processi? O non applicare davvero gli ordini
di protezione previsti dal codice civile? E quando le forze dell’ordine
verranno formate adeguatamente a riconoscere la violenza domestica,
senza liquidarla come un conflitto?».
Insomma, le donne sono sole.
E i loro unici rifugi che le accolgono e salvano con i figli,
smantellati uno dopo l’altro. Fino al prossimo femminicidio.