l Sole Domenica 19.6.16
Hitler secondo l’anarchico Feyerabend
di Armando Massarenti
Dopo
la recente affermazione della destra xenofoba in Austria, a un passo
dal vincere le elezioni, ho ripensato a ciò che scriveva Paul K.
Feyerabend nella sua splendida autobiografia, intitolata Ammazzando il
tempo e uscita per Laterza nel 1994, anno della sua morte, a 70 anni di
età. Esordiva fin dalle prime pagine avvertendo degli strani scherzi che
può fare la memoria: quelli in forza dei quali magari oggi ci si
stupisce del rinascere di certe idee che pensavamo del tutto tramontate.
Aveva deciso di scrivere quel libro nel 1988, durante il cinquantenario
dell’unificazione tra Austria e Germania. «Ricordavo che gli austriaci
avevano accolto Hitler con straordinario entusiasmo, ma ora mi ritrovavo
ad ascoltare condanne secche e toccanti appelli umanitari. Non che
fossero tutti in malafede, eppure suonavano vuoti: lo attribuii alla
loro genericità e pensai che un resoconto in prima persona sarebbe stato
un modo migliore di fare storia. Ero anche piuttosto curioso. Dopo aver
tenuto lezioni per quarant’anni in università inglesi e americane, mi
ero quasi dimenticato dei miei anni nel Terzo Reich, dapprima come
studente, poi da soldato in Francia, Iugoslavia, Russia e Polonia».
Persino lui, Paul K. Feyerabend, dunque, già allora quello spirito
libero che poi sarebbe divenuto famoso come l’epistemologo
dell’anarchismo metodologico, aveva subito una forma di attrazione per
il regime, e aveva anche meditato di entrare nelle SS. «Perché? Perché
un uomo delle SS aveva un aspetto migliore, parlava meglio e camminava
meglio di un comune mortale: le ragioni erano estetiche, non
ideologiche». Finalmente un libertario, un democratico capace di non
cadere nelle trappole dell’ipocrisia! ho pensato ai tempi leggendo
Ammazzando il tempo. E che ci fa capire meglio perché il nazismo potesse
attrarre le giovani generazioni. Anche rivedere l’immagine stereotipata
di Hitler era per Feyerabend un modo per capire meglio la realtà.
Abbiamo visto mille volte spezzoni di documentari che ce lo mostrano
come una macchietta in preda all’ira. Si tratta di una precisa scelta
della propaganda post-bellica. Feyerabend descrive invece così la sua
arte oratoria: «Hitler accennava ai problemi locali e a quanto era stato
fatto fino ad allora, faceva battute, alcune abbastanza buone.
Gradualmente cambiava il modo di parlare: quando si riferiva a ostacoli e
inconvenienti aumentava il volume e la velocità del parlare. Gli
accessi violenti che sono le uniche parti dei suoi discorsi conosciute
in tutto il mondo erano preparati con cura, ben interpretati e
utilizzati con umore più calmo una volta finiti; erano il risultato di
controllo, non di rabbia, odio o disperazione».
Ancora oggi, se
del nazismo non cerchiamo di capire le ragioni interne, e magari non ci
spaventiamo a rileggere Mein Kampf, non sapremo mai perché esso ha
appassionato così tante persone. E sarà anche più difficile difendere i
nostri valori più cari: libertà, pluralismo, democrazia. Benché
l’intelligenza critica di Feyerabend fosse già piuttosto acuta, al punto
da commentare la lettura di Mein Kampf (ad alta voce alla famiglia
riunita) come un «modo ridicolo di esporre un’opinione», «rozzo,
ripetitivo, più un abbaiare che un parlare», egli stesso, pochi giorni
dopo, avrebbe concluso un tema scolastico su Goethe legandolo proprio a
Hitler. Non solo la memoria collettiva può fare brutti scherzi: anche la
nostra attenzione critica è qualcosa di quanto mai fragile. Ma lo è
ancora di più se ci rifiutiamo di rileggere senza ipocrisia le pagine
più buie della nostra storia.