Il Sole Domenica 19.6.16
L’intelligenza dei depressi
Il nuovo romanzo di Paolo Bianchi racconta il legame tra creatività e psicosi senza vittimismi o autocompiacimenti
di Gilberto Corbellini
Che
cosa hanno in comune personalità tanto famose quanto diverse come Hans
Christian Andersen, Isaac Asimov, Ingmar Bergman, Winston Churchill,
Joseph Conrad, Charles Darwin, Johnny Depp, Charles Dickens, Bob Dylan,
Eminem, William Faulkner, Harrison Ford, Friedrich von Hayek, Stephen
King, Hugh Laurie, John Lennon, Abraham Lincoln, Gustav Mahler, Henri
Matisse, Herman Melville, Michelangelo Buonarroti, Wolfgang Amadeus
Mozart, Isaac Newton, Brad Pitt, Edgard Allan Poe, Janet K. Rowling,
Robert Schumann, Mark Twain, Walt Whitman, Robin Williams? Sono
un’esigua minoranza di individui molto famosi per qualche forma di
creatività, che hanno anche sofferto o soffrono di depressione grave.
Dei rapporti tra malattie mentali, e in particolare depressione, e
creatività o intelligenza, si discute da millenni. Molti hanno pensato,
come Paolo Bianchi, che «il male di vivere è solo una maledetta forma di
intelligenza». Il romanzo di Bianchi sulla depressione è intelligente.
La storia del protagonista fa capire senza compiacimenti né vittimismi
in cosa consiste l’esperienza di stare, senza scegliere quando, dentro e
fuori un baratro di dolore psicologico senza fine. Un inferno in cui da
un momento all’altro si può essere gettati da inattese, progressive,
incontrollabili e intollerabili folate di ansia, e da cui si esce
altrettanto inaspettatamente, quasi senza memoria di quel dolore. La
vita di chi è depresso, come Emilio Raviola, è scandita da
frequentazioni indotte o completamente condizionate dalla malattia.
Nella malattia di Emilio si leggono in filigrana le radici genetiche e
gli apporti ambientali della famiglia, ma anche scolastici. Essa lo
costringe a selezionare e filtrare rapidamente le relazioni amorose,
amicali e familiari sulla base della capacità delle persone di accettare
che si possa stare malissimo e a rischio di morire per autolesionismo,
senza alcuna lesione fisica. I conoscenti si dividono presto fra chi
dice «tirati su, forza, fai qualcosa; reagisci!»: di solito poco
intelligenti e da tenere alla larga. E chi sa o cerca di capire quello
che provi, ti ascolta o ti distoglie dai piani autodistruttivi:
individui purtroppo rarissimi. Emilio deve reinventarsi un punto di
vista sul mondo, compatibile col fatto che la malattia depressiva ti
apre uno squarcio sulla verità delle cose, sull’illusione della volontà,
della libertà, del senso dell’esistenza, dell’amore, etc. Non tutti ci
riescono, e non pochi preferiscono farla finita. Il romanzo di Bianchi
tratteggia il profilo dei terapeuti professionali, i quali fingono di
sapere (è il loro autoinganno), quali effetti otterranno somministrando
diverse combinazioni di farmaci. In realtà ne hanno un’idea piuttosto
vaga. Si tratta di inventarsi dei cocktail tarati sui singoli pazienti,
che vogliono giustamente negoziare i pesanti effetti collaterali di
questi farmaci. La prima prova di intelligenza è capire che la terapia
della parola, la psicoterapia, è una rapina e un evitabile calvario.
Emilio, come molti che soffrono di depressione, ha una formidabile
padronanza empirica della farmacologia, a riprova che nel volgere di
qualche anno chi è malato sa meglio del medico, cosa gli serve. A tratti
il libro di Bianchi ricorda la lucida e sarcastica ironia di uno dei
testi in assoluto più belli sulla depressione: The depressed person,
dello scrittore suicida David Foster Wallace (Harper Magazine, gennaio
1998). Tra Xanax, ospedalizzazioni, settimane trascorse a letto, SSRI,
prostitute comprensive, etc. Emilio trova infine sollievo incontrando
con regolarità un gruppo di autoaiuto. Il romanzo, pubblicato in
collaborazione con Progetto Itaca che promuovere il supporto sociale per
le persone con disturbo mentale, non propone il ricorso al gruppo di
supporto come soluzione. Ogni caso di malattia mentale è una storia a sé
e l’intelligenza aiuta a scegliere quello che funziona. I gruppi di
autoaiuto sono come i farmaci, vanno bene per chi risponde, e le
statistiche raccontano che circa il 17% soltanto entra in un gruppo di
supporto tra tutti coloro ai quali è stato consigliato, e di questi solo
un terzo vi rimane più di quattro mesi. Quanto c’è di vero
nell’affermazione che anche Paolo Bianchi sembra condividere, cioè che
l’intelligenza è una malattia mentale? Il tema è antico. Per Aristotele
«tutti coloro che hanno raggiunto l’eccellenza nella filosofia, nella
poesia, nell’arte e nella politica, inclusi Socrate e Platone, avevano
un habitus malinconico; di fatto alcuni soffrivano anche di malattia
malinconica». Non è scontato che la malinconia dei medici antichi
coincidesse con la nostra depressione clinica, come non è detto che la
depressione unipolare sia un’entità clinica separata dal disturbo
bipolare. Nell’età tardo antica e soprattutto nel Medioevo la malinconia
assunse però connotati solo negativi, com’era inevitabile per una
religione come quella cristiana che esigeva una rinuncia entusiastica ai
piaceri della vita. L’accidia diventa, infatti, un peccato capitale.
Nel Medioevo Saturno diventava però il simbolo astrologico
dell’ambivalenza intellettuale e della vita artistica, associandosi alla
malinconia, preparando il Rinascimento, dove l’umore depresso sarà
sinonimo di genialità intellettuale. Marsilio Ficino, nella seconda metà
del XVI secolo, pensava che una mente tormentata avesse più valore: chi
sa non può che essere insoddisfatto, e l’insoddisfazione provoca
malinconia. Mentre nel Sud Europa la malinconia si associava alla
genialità ed era un prerequisito per l’inspirazione intellettuale, nel
Nord si associava alla stregoneria. Ma di lì a qualche secolo sarebbe
arrivata la psichiatria. Il tema della malinconia nutriva anche il
romanticismo inglese e tedesco, e la filosofia dell’Ottocento. Kant
declamava la nobiltà della malinconia, scrivendo che «la virtù genuina
basata sui principi ha qualcosa che armonizza molto con la struttura
malinconica della mente». Il sublime è sempre accompagnato da “terrore e
malinconia”. Meno positive le pagine di William James che soffriva di
gravi episodi depressivi, e leggeva questa condizione come una
dimensione emotiva del disincanto sentimentale prodotto dalla diffusione
dalla scienza. «Come può lo scienziato, allora, pretendere – scriveva–
di avere più ragione di altri uomini, affetto com’è dal pantano
emozionale umano. Così pensa il nostro uomo malinconico, nelle sue ore
più buie». Da quasi un secolo, il problema dei rapporti tra malattia
mentale e creatività è studiato empiricamente. I risultati mostrano che
tra le persone più creative è più probabile trovare anche disturbi
mentali e che tra le persone con disturbi mentali è più probabile
trovare individui creativi. Da qui a dar ragione a chi
irresponsabilmente elogia la depressione, ce ne passa. Anche perché
nessuno se la sceglie, come nessuno può scegliere di nascere
intelligente. È semplicemente l’ennesima prova che il corso evolutivo
della vita sulla terra sviluppa le sue strategie senza curarsi del
benessere umano, ingannandoci con ridicole idee sul senso e il
significato della sofferenza.
Paolo Bianchi, L’intelligenza è un disturbo mentale , Cairo, Milano, pagg. 180, € 13