Il Sole Domenica 19.6.16
Immigrazione
Solo le storie misurano il dolore
di Giorgio Fontana
Da
bambino sognavo che esistesse una macchina del dolore. Un aggeggio che
consentisse, per pochi istanti, di provare concretamente le sofferenze
altrui — specie quelle che mi apparivano più remote: il freddo, la fame,
la tortura. Cosa sente un corpo quando viene ridotto all’impotenza?
Potevo vederlo alla televisione. Lo leggevo nelle mie prime avventure
attraverso le pagine. Ma ero sicuro di comprenderlo veramente?
Ritenevo
che solo un’effettiva trasmissione di quella sofferenza avrebbe potuto
scatenare in noi la vera empatia — e dunque un’azione immediata. Non
puoi capire, mi dicevo: è vero, a volte realmente non possiamo capire.
L’immaginazione ha dei limiti irritanti; e lì vedevo l’origine
dell’ignavia morale. E ogni volta che leggo di una tragedia capitata a
chi si è messo in viaggio per fuggire, una parte di me — la più
radicale, forse anche la più ingenua — ci ripensa con convinzione. Uno
strumento capace di andare oltre la squallida contabilità del male: 366
migranti deceduti nel solo naufragio del 3 giugno 2013; 3500 i morti in
mare nel 2015; centinaia di dispersi il 6 maggio 2011; centinaia di
migliaia di sfollati dalla guerra in Siria; e così via, e così via. Uno
strumento capace di andare oltre i tanti discorsi, le tante immagini.
Oltre il dramma della rassomiglianza e dell’assuefazione. Dopo cento
volti straziati dalla sofferenza, dopo gruppi e gruppi di bambini
affamati che fissano l’obiettivo, dopo un editoriale indignato, dopo un
dialogo contrito fra amici e compagni — che resta? Come propagare un
vero incendio delle coscienze? Volevo un mezzo per proteggerci dal
pensiero destinale: l’idea che in fondo le cose stiano così, che non vi
sia altro da fare se non compiangere. Lamentarsi insieme. Un rito
consolatorio.
Poi sono diventato grande, e mi sono trovato a che
fare con le parole. Un mezzo certamente molto potente, e nel quale nutro
grande fiducia. Ma limitato, e a volte carico di menzogna. Pensate solo
a ciò che diventa un essere umano in fuga dall’Eritrea, o dal Sudan, o
dall’Afghanistan, quando tocca le coste dell’Europa: un irregolare, un
clandestino. Subisce una sorta di trasformazione — e basta qualche
sillaba. Del resto su questo non ho mai avuto dubbi: il potere, anche il
potere lessicale, è qualcosa di estremamente pericoloso.
Cosa opporre allora a tutto questo? Qual è la nostra macchina del dolore? Le storie, forse.
Le
storie sono ciò che ci impedisce di ridurre questa immensa tragedia a
un mucchio di concetti e numeri: le storie liberano le parole dalla loro
banalità e dalla loro imprecisione. In un passo di Minima moralia,
Adorno scriveva che «la vita passata dell’emigrante è, come è noto,
annullata. Una volta era il mandato di cattura, oggi, invece, è
l’esperienza intellettuale che viene dichiarata non trasferibile e
totalmente estranea al carattere nazionale. Ciò che non è reificato, che
non si presta ad essere contato e misurato, viene lasciato cadere».
Tutto ciò che all’Europa interessa è appunto il misurabile: un’impronta
digitale, un nome, un foglio di carta. Quello che c’è dietro — la
singolarità ineludibile di ogni persona, l’unicità di ogni esperienza —
perde di significato.
Ecco, le storie si ribellano a questo
pensiero. Le storie rivendicano l’eccezione e l’individualità contro la
regola uniformante: narrarle, e ascoltarle, fa parte della nostra
possibilità di riscatto morale. Perché non ci parlano di una massa
confusa, ma di persone. Non dicono di clandestini, ma di esseri umani:
liberi, affamati di felicità, terrorizzati dal destino dei propri cari.
Esattamente come noi.
Non crediate che sia soltanto un problema
transitorio o legato a un dato periodo storico: in gioco c’è molto di
più. Perché è in luoghi come i campi che oggi stiamo decidendo,
concretamente e dolorosamente, che cos’è un essere umano. La libertà
delle persone in fuga misura la nostra: più la neghiamo, più
sprofondiamo in un abisso di vergogna e crudeltà, e più la libertà che
viviamo ogni giorno suona come un insulto. La loro possibilità di avere
un futuro misura il nostro. La loro stessa esistenza, in breve, misura
il valore della nostra.
È terribile pensare a tutti questi
individui come a una semplice massa che giunge verso di noi in maniera
casuale e scomposta; ed è sbagliato anche pensarli come oggetti inerti e
semplicemente bisognosi di cure.
No, essi testimoniano invece una
profonda dignità. Una resistenza all’oppressione, alla violenza
terrorista o istituzionale, ai recinti, alla crudeltà gratuita, alla
disperazione. Un fotografo siriano che ha lavorato nei campi dei
rifugiati ha detto: «Le persone che ho incontrato sono nelle peggiori
condizioni possibili, ma hanno il desiderio di continuare a rimanere
umani». E dunque soggetti liberi.
È dallo straniero che viene che
giungono i doni migliori, quelli che non avremmo mai sospettato di
ricevere per paura o diffidenza. Albert Camus — uno dei primi a
ricordarci che lo straniero giace dentro di noi — annotava: «Al mondo
esiste la bellezza ed esiste l’inferno degli oppressi. Per quanto
difficile possa essere, io vorrei essere fedele a entrambi». Restare
fedeli alla bellezza e agli oppressi: non conosco modo migliore per dire
quello che siamo chiamati a fare, di fronte a chi si mette in viaggio.