Il Sole Domenica 19.6.16
Lo sterminio degli oggetti
Jan Gross documenta la ricerca dell’oro e altri beni preziosi tra teschi e ossa dissotterati a Treblinka da contadini polacchi
di Sergio Luzzatto
La
fotografia non è datata, ma risale all’immediato dopoguerra, 1945 o
dintorni. Prima di finire (recentemente) nel museo di Treblinka, in
Polonia, apparteneva a un abitante del vicino villaggio di Wólka
Okraglik. La foto mostra un gruppo di gente del posto, uomini e donne,
contadini e contadine della Masovia armati di pale e di vanghe, insieme
con alcuni poliziotti. È una foto-ricordo. Il gruppo di paesani si è
radunato intorno ai frutti di un raccolto ordinatamente disposto davanti
a loro. A un primo sguardo si direbbero zucche, o cocomeri. A guardar
meglio, si riconosce che il raccolto è fatto d’altro. È un raccolto di
teschi e di ossa. Frutti dissotterrati, evidentemente, nel gibboso campo
lì intorno. Nel terreno formato dalle ceneri degli ottocentomila ebrei
gassati a Treblinka fra il luglio 1942 e l’ottobre 1943.
Studioso
polacco emigrato da tempo negli Stati Uniti, Jan Gross ha costruito
sopra una lettura di questa foto il libro Un raccolto d’oro (Einaudi).
Più che una monografia, un saggio sul nesso storico esistente fra la
distruzione degli ebrei d’Europa e l’appropriazione della loro roba. I
paesani della foto-ricordo valgono da sineddoche, sono la parte per il
tutto. Appartengono a un piccolo esercito di zappatori che nella Polonia
“liberata” dall’Armata rossa dissotterravano i resti degli ebrei nella
speranza di trovar loro addosso – ancora – qualche bene prezioso.
Capsule dentarie d’oro, o gioielli nascosti dai morituri in chissà quali
orifizi corporali e sfuggiti alle ispezioni effettuate dalle SS sulla
soglia delle camere a gas.
Fin dal marzo 1939 (con anticipo,
dunque, sull’inizio della Seconda guerra mondiale) il governo del Terzo
Reich aveva imposto agli ebrei tedeschi la consegna di tutto il loro
oro, argento e platino. Dopodiché, il grosso dei preziosi che gli ebrei
d’Europa avevano portato con sé nel loro viaggio verso i campi di
sterminio dell’Est era stato rimesso alla Banca del Reich, dal 1942 al
’44, attraverso svariate decine di spedizioni ad hoc. In Germania, il
nesso fra la sistematica distruzione degli ebrei e la loro sistematica
depredazione aveva assunto plastica evidenza nella duplice attività
della Degussa: un’azienda chimica di Essen che deteneva – insieme – la
licenza statale di fondere, purificare, commerciare i «metalli ebraici»,
e il brevetto per la produzione dello Zyklon B, l’acido prussico delle
camere a gas di Auschwitz.
«Nel paesaggio dello sterminio degli
ebrei», ragionava già nel 1946 Rachel Auerbach, eccezionale figura di
partigiana-archivista sopravvissuta all’insurrezione e alla liquidazione
del ghetto di Varsavia, «lo sterminio degli oggetti occupa un posto
eminente. La tragedia e il maltrattamento delle cose uguagliavano la
tragedia e il maltrattamento degli uomini». Difficile darle torto,
scoprendo nel libro di Gross – ad esempio – lo zelante lavorìo delle
diverse migliaia di funzionari che operarono per settimane tra le rovine
fumanti del ghetto a trasportare le masserizie lasciate dagli ebrei, ad
accumularle in depositi, chiese, sinagoghe, a organizzarne lo smercio.
Cioè la svendita ai polacchi «ariani» di Varsavia.
Nella Polonia
occupata dai nazisti ebbe luogo, secondo Jan Gross, una mutazione
etico-antropologica: una variazione strutturale delle norme che
regolavano i comportamenti accettabili nei confronti degli ebrei. Allo
sguardo degli ariani polacchi, gli ebrei non parvero più (come disse un
altro partigiano-archivista del ghetto, Emanuel Ringelblum) che «defunti
in licenza». Morti solo provvisoriamente viventi, che era perfettamente
lecito depredare di ogni cosa, dalle abitazioni ai negozi, dai terreni
ai laboratori, dai gioielli ai vestiti. Si calcola che furono mezzo
milione, all’indomani della guerra mondiale, i passaggi di proprietà
riconosciuti come legali: le successioni di beni dagli ebrei polacchi
morti agli ariani polacchi vivi. E si stima a diverse centinaia di
migliaia il numero di ebrei polacchi assassinati – durante la guerra, e
anche dopo – non dagli occupanti tedeschi, ma dagli occupati polacchi.
Prima
di riunirsi davanti all’obiettivo di un fotografo dilettante con un bel
raccolto di teschi e di ossa, era capitato ai polacchi di riunirsi per
le cosiddette «battute di caccia» contro gli ebrei loro vicini di casa.
Così nel villaggio di Jedwabne (non lontano da Treblinka), in un pogrom
del luglio 1941 che Jan Gross ha consegnato – in un altro suo libro –
alla storia della Soluzione finale; così in tanti villaggi della Polonia
profonda. Ed era capitato ai polacchi di raccogliersi numerosi intorno
alla stazione ferroviaria di Treblinka, per vendere bicchieri d’acqua
agli ebrei assetati dentro i vagoni piombati, passeggeri ignari di
essere ormai giunti a destinazione. O per alimentare, nei paesi del
circondario, tutto un piccolo indotto dello sterminio. «Gli orologi da
polso venivano allora venduti a dozzine per due soldi, tanto che i
contadini locali li portavano nei cesti per le uova».
Finita la
guerra, i cosiddetti «dentisti» al lavoro presso le fosse comuni dei
campi di sterminio – a Treblinka, a Belzec, a Sobibór – non fecero che
riprendere questa stessa politica economica, con altri mezzi. Dal
rapporto di un pubblico ufficiale in missione a Treblinka, 13 settembre
1945: «Sotto ogni albero c’erano buche scavate dai cercatori d’oro e di
brillanti. Il fetore di cadaveri e di gas era così aggressivo da far
venire a me e al mio collega il vomito e un’irritazione terribile alla
gola. Inoltrandoci nell’area, abbiamo incontrato della gente calata
nelle fosse a scavare. Alla nostra domanda “cosa state facendo?” non
hanno dato nessuna risposta». Dal verbale di un poliziotto del
commissariato di Belzec, 10 ottobre 1945: «Dopo la fuga dei tedeschi la
polizia locale ha cercato d’impedire gli scavi nell’area del campo, ma è
difficile porre rimedio al problema, perché appena cacci via un gruppo
di persone ne arriva subito un altro».
Chissà se la domanda
rivolta agli zappatori dai pubblici ufficiali – cosa state facendo? – fu
mai rivolta dai sacerdoti delle chiese di Polonia ai «dentisti» loro
parrocchiani: altrettanti buoni cattolici, presumibilmente, che non
mancavano di confessarsi prima della messa della domenica. Di sicuro,
quando il parroco di un paesello vicino a Treblinka volle pronunciarsi
sugli scavi compiuti nel cimitero delle ceneri, si guardò dal
biasimarli. «Que lle sono tombe ebraiche, e denti d’oro o gioielli non
dovrebbero restare sepolti» è quanto si sentirono dire, dal pulpito, i
battezzati del villaggio di Jasienica.
Jan Tomasz Gross con Irena Grudzi?ka Gross, Un raccolto d’oro. Il saccheggio dei beni ebraici , Einaudi, Torino, pagg. 126, € 20