Il Sole Domenica 12.6.16
Realismo / 1 - John Searle
Come stanno le cose?
Negare che il mondo esista indipendentemente da noi che lo percepiamo è il più grande e persistente tra gli errori filosofici
di Paolo Legrenzi
Secondo
George Berkeley, filosofo dell’inizio del ’700, le cose esistono in
quanto pensate. Gli oggetti del mondo sono soltanto collezioni di idee. E
allora che cosa succede alla Chiesa del Redentore di Venezia quando
smettiamo di guardarla o quando non ci pensiamo? Continua a esistere,
grazie a Dio, nel senso letterale dell’affermazione. Berkeley sostiene
che esiste perché Dio la percepisce sempre. In seguito i filosofi fecero
a meno di Dio, ma continuarono a negare che le cose esistono nel mondo
indipendentemente da noi. Come mai studiosi come Bacone, Cartesio, Hume,
Kant, Leibniz, Locke e Spinoza, per citare i più noti, commisero quello
che per Searle è uno dei più grandi errori della filosofia degli ultimi
secoli?
Searle lo spiega usando, come prima di lui aveva fatto
Ludwig Wittgenstein, il disegno del papero/coniglio, che può venir visto
come se fosse un coniglio che guarda a sinistra oppure come se fosse un
papero che guarda a destra. L’ambiguità dimostra che l’interpretazione
del disegno dipende da noi. E tuttavia non è vero che possiamo
interpretare tutto: questo è quello che Searle chiama il Cattivo
Argomento, che ha sedotto tanti filosofi. Poniamo che un bambino creda
che il padre arrivi a casa la sera. L’oggetto intenzionale della
credenza è suo padre. Se egli invece crede che Babbo Natale arrivi la
notte di Natale, la sua credenza è priva di oggetto intenzionale. Ha un
contenuto, per l’appunto Babbo Natale, ma non ha un oggetto perché Babbo
Natale non esiste. Se tralasciamo questa cruciale distinzione, possiamo
sostenere che tutto dipende dalle nostre categorie mentali.
Si
dirà che il senso comune non fa questo errore, e che si tratta di una
disputa tra filosofi azzeccagarbugli. E invece no. L’idea che tutto
dipenda dalle nostre categorie mentali piace e ha fatto danni anche al
di fuori della filosofia. Durante il mitico ’68, ero alla facoltà di
Sociologia di Trento (da giovani si prende quel che viene). Andava di
moda l’idea che tutto dipende da come categorizziamo le cose e che,
mutando i punti di vista, si costruisce un mondo nuovo. Basta volerlo.
Per esempio, smettendo di etichettare i “devianti” in un dato modo, le
malattie mentali si sarebbero dileguate. Qui il Cattivo Argomento serve
per invocare un mondo migliore. Per motivi meno nobili, è servito ad
alimentare la volontà di potenza dei politici. Donald Rumsfeld, il
segretario alla difesa di Bush (il secondo), era solito affermare: «Ora
il mondo lo facciamo noi». Caduto il comunismo, il mondo andava
ripensato “all’americana”. Gli psicologi, d’altronde, hanno dimostrato
che l’auto-inganno speranzoso, entro certi limiti, può giovare.
Purtroppo
può finire per piacere anche a dosi massicce, e il successo di Trump
testimonia che in America questa volontà di potenza è sempre viva. È
morta invece nelle neuroscienze cognitive. È difficile pensare di poter
curare le malattie mentali a parole dopo che avete scoperto le
modificazioni neurali che le accompagnano e le loro basi genetiche.
Oggi,
le teorie gratificanti della percezione si mescolano allo sfruttamento
dell’attenzione umana. La psicologia del senso comune da per scontato
che noi stiamo attenti solo a quello che noi vogliamo mettere a fuoco.
William James aveva decretato, nei suoi Principi di Psicologia del 1890,
che tutti sanno che cosa è l’attenzione e come funziona. E invece no.
Proviamo, per esempio, a chiedere alle persone che cosa c’è scritto su
un foglio. Se la parola nero è scritta con inchiostro nero, come sul
giornale che state leggendo, non c’è problema. Se invece nero fosse
stato scritto con inchiostro verde, è impossibile non badare al verde,
anche quando vorremmo trascurare il colore dell’inchiostro.
Questo
fenomeno di schiavitù a informazioni non pertinenti viene chiamato
“effetto Stroop”, dal nome del suo scopritore. Oggi gli effetti Stroop
sono usciti dai laboratori e viaggiano in rete, dove troviamo immagini
artificiali che siamo “costretti” a guardare perché attenzione e
emozioni vengono sequestrate. Siamo attirati, siamo tentati, e si può
finire per cadere in trappola. A Parigi, il 29 maggio, più di diecimila
adolescenti ha fatto la coda per vedere le loro eroine della rete. E
così l’adolescente rincorre l’immagine artificiale sapientemente
costruita (non solo con l’ausilio di software) e cerca di avvicinare il
suo corpo e le sue sembianze ai modelli trovati in rete. Questi reggono
il mondo, così come la percezione divina manteneva in piedi la Chiesa
del Redentore. Forse Berkeley avrebbe apprezzato. Searle certamente no. A
Roma, meno di un mese fa, durante una lunga passeggiata e una cena mi
ha detto che purtroppo i più danno per scontata, e quindi non apprezzano
abbastanza, la capacità di guardare il mondo, muoversi e parlare. Vi
assicuro che a quasi 84 anni Searle fa benissimo tutte e tre le cose.
John Searle, Vedere le cose come sono. Una teoria della percezione , Cortina, Milano, pagg. 250, € 25