Il Sole Domenica 12.6.16
Lettera da Gerusalemme
Sykes-Picot cent’anni dopo
Gli
accordi con cui finì l’impero ottomano e nacquero Stati e regni
segnarono sulla carta geografica confini fatti di linee rette
di Ugo Tramballi
Fu
dalla corte dell’American Colony che Hussein Salim al-Husseini, il
sindaco di Gerusalemme, partì accompagnato da un seguito di notabili e
da un fotografo svedese, alla ricerca delle avanguardie inglesi per
consegnare la resa della città al generale Allenby. Prima che il piccolo
corteo si mettesse in cammino, Anna Spaffors, la vedova del fondatore
del Colony, consigliò a Husseini di non partire senza una bandiera
bianca. Era meglio evitare di essere scambiati per soldati turchi in
fuga.
Era il 9 di dicembre del 1917. Usciva dalla Palestina un
impero e arrivava un altro conquistatore. Incominciava una nuova era:
quella che avrebbe generato i conflitti di oggi, creatrice di «una pace
per porre fine a tutte le paci». Dopo Gerusalemme sarebbe presto caduta
anche Damasco e il Medio Oriente avrebbe preso le forme politiche se non
proprio geografiche concordate da Sir Mark Sykes, consigliere di
Downing Street per la regione, e da François Georges-Picot, diplomatico,
convinto sostenitore della “missione civilizzatrice” dell’imperialismo
francese. Era stata una trattativa breve. L’accordo fu segretamente
raggiunto nel gennaio 1916 quando la fine dell’impero ottomano era
prevedibile ma lontana, e la vittoria nella Prima guerra mondiale
tutt’altro che certa: sulla mappa originale custodita nell’Archivio
Nazionale britannico la firma di Sykes è in matita, quella di
Georges-Picot in inchiostro nero. Il 16 maggio successivo, giusto cento
anni fa, i ministri degli Esteri dei due Paesi lo ratificarono. La “zona
rossa”, sotto il controllo britannico, comprendeva Baghdad e la
Mesopotamia meridionale, la costa settentrionale del Golfo compreso il
Kuwait, e a Ovest Haifa e Acri in Palestina. «Intendo tirare una linea
dalla “A” di Acri all’ultima “k” di Kirkuk», sintetizzò Mark Sykes.
La
“zona blu” francese andava dalla Cilicia alla frontiera iraniana a Est,
a Acri a Sud, compresa la costa mediterranea della Siria, il Libano e
la Galilea del Nord. C’era anche una zona russa, 60mila miglia quadrate
dal Mar Nero a Mosul, che non fu attribuita a nessuno quando l’impero
uscì di scena, prima travolto dagli austro-tedeschi e poi dalla
Rivoluzione d’Ottobre.
Gli accordi Sykes-Picot non creavano nuovi
Stati, si limitavano a stabilire le due sfere d’influenza dentro le
quali le due potenze europee avrebbero favorito la nascita di nazioni
secondo i loro interessi. La prima conseguenza, nel novembre 1917, fu la
promessa poi mantenuta di un “focolare ebraico” in Palestina fatta dal
ministro degli Esteri Balfour al barone Rothschild; la seconda la
promessa invece disattesa di una nazione araba che T.E. Lawrence aveva
portato agli Hashemiti per convincerli a combattere i turchi.
Il
luogo che materializza questa storia centenaria è la lobby dell’hotel
American Colony, a Gerusalemme, che prima di diventare un albergo fu un
ospedale e poi un ostello di pellegrini. Nell’albo dei suoi ospiti,
esposto all’ingresso, ci sono tutti i protagonisti di allora: Lawrence
d’Arabia, Winston Churchill, il generale Allenby, Hussein re
dell’Hegiaz. E accanto alla storia vera c’è quella di celluloide, i nomi
reali e quelli dei loro alter ego cinematografici: Peter O’Toole, Alec
Guinnes, Omar Sharif, Antony Quinn e il resto del cast di Lawrence
d’Arabia, confusi fra i più recenti Bob Dylan, Versace, Bill e Melissa
Gates. Quando il film fu girato, nel 1962, la parte di Gerusalemme dove
c’è il Colony era in Giordania. Nel 1967, dopo la guerra dei Sei giorni,
sarebbe passata a Israele.
L’impareggiabile capolavoro di David
Lean ebbe un tale successo che la sua semplificazione degli accordi
Sykes-Picot divenne l’unica versione plausibile di ciò che accadde.
Soprattutto per i regimi arabi che ancora oggi continuano a giustificare
il caos nella loro regione e i loro fallimenti nazionali, citando quel
film. Nell’estate del 2014 un video dell’Isis, diventato virale,
mostrava un bulldozer che apriva un passaggio attraverso la frontiera di
sabbia appena conquistata fra Siria e Iraq. Il titolo del filmato era
Fine di Sykes-Picot. Sottinteso era l’inizio di una nuova epoca segnata
da un unico grande Stato islamico arabo-sunnita in tutto il Medio
Oriente.
Sykes-Picot fu una evidente porcheria coloniale. Da
allora, «la gran parte del Medio Oriente ha vissuto in una condizione
cronica che definirei sindrome post-ottomana», scrive Avi Shlaim,
professore emerito a Oxford, uno dei più grandi storici della regione.
«I suoi sintomi sono disordine, instabilità e deficit di diritti per i
popoli della regione». Il sistema prodotto alla fine della Prima guerra
mondiale «fu largamente la creazione delle potenze coloniali…Ma i
confini internazionali che i vincitori crearono, hanno resistito fino ai
nostri giorni, con l’eccezione di Israele-Palestina. Hanno dimostrato
di essere notevolmente stabili, quasi sacrosanti: forse l’unico elemento
stabile in una regione volatile».
Ad eccezione dei curdi che
sognano un’indipendenza mai ottenuta, non c’è regime arabo né alcuno dei
suoi oppositori delle guerre civili di oggi, non gli sciiti né i
sunniti, che non rivendichi il controllo di quelle frontiere. Nessun
contendente vuole una parte della Siria o dell’Iraq ma ambisce
all’intero Paese, nonostante entrambi siano il frutto degli interessi
coloniali anglo-francesi d’un tempo. Il Libano fu brutalmente separato
dalla Siria. Come disse Picot, «era impensabile che il popolo francese
potesse accettare di porre i cristiani del Libano sotto un dominatore
maomettano». Eppure cento anni dopo, i fondamentalisti sciiti di
Hezbollah non hanno alcuna intenzione di riunificare il Libano alla
Siria. Senza il cinismo francese del governare e dividere la Siria,
scegliendo una setta minoritaria per metterla contro le altre
maggioritarie, gli alawiti della famiglia Assad non governerebbero il
Paese da 46 anni.
Per quanto interessato, limitato e
paternalistico, «l’accordo Sykes-Picot fu il primo vero riconoscimento
del diritto degli arabi all’autodeterminazione», ammettono Efraim e
Inari Karsh in Empires of the Sands (Harvard, 2001). È curioso che i
libri più interessanti dedicati a quell’epoca abbiano la parola sabbia
nel titolo: A Line in the Sand di James Barr (Simon & Schuster,
2011) e Shifting Sands di autori vari (Profile Books, 2015): saggi che
insieme a mille altri possiede il book shop dell’American Colony, una
specie di Biblioteca di Alessandria della storia mediorientale, in mezzo
ai conflitti mediorientali. Come se quaggiù solo i libri possano
fissare l’opera degli uomini – la politica e i conflitti- altrimenti
destinata all’evanescenza della sabbia.