Il Sole 4.6.16
I massacri nel Kurdistan e le ambiguità dell’Occidente
Gli attacchi a Diyarbakir e Cizre sono (purtroppo) una vecchia storia
di Alberto Negri
Erdogan
è il presidente di un Paese della Nato che ancora aspira, almeno a
parole, all’ingresso nell’Unione europea e con la quale comunque fa
accordi: eppure nessuna voce si è levata in questi anni per protestare
contro quello che accade in Turchia. Soltanto qualche flebile e
intermittente avvertimento di Washington e Bruxelles presto soffocato
dagli interessi che legano Ankara all’Occidente. Non meravigliamoci se
adesso si scoprono stragi e massacri, ne avevamo già dato notizia.
Il
30 ottobre scorso, alla vigilia delle ultime elezioni, gli elicotteri
sorvolavano Diyarbakir, capitale del Kurdistan, Cizre e Silvan: all’ora
più buia prima dell’alba si muovevano le ombre dei corpi speciali e nel
terrore regolavano i conti sanguinosi di guerriglie, stragi e attentati.
I giornalisti venivano tenuti lontani o arrestati. Carri armati e
artiglieria erano in azione ovunque, al punto di colpire nel pieno
centro storico di Diyarbakir, a Sur, una moschea del 1500. Fumo e
macerie, scoppi e raffiche di mitra tra grida di bambini.
Questo è
accaduto nei 79 giorni di assedio che hanno devastato Cizre: lontano
dagli occhi del mondo si stava compiendo una strage di civili, 259
morti, 177 bruciati dalle forze di sicurezza mentre erano nascoste nei
rifugi sotterranei. Gli altri sono stati colpiti dai cecchini o lasciati
morire in mezzo alle strade, ostacolando i soccorsi e i ricoveri
ospedalieri.
Tra i tanti errori compiuti da Erdogan in questi anni
forse il più gravido di conseguenze è come ha affrontato la questione
curda, un conflitto che dura da oltre trent’anni, divide la Turchia e
rende problematica anche la sua politica mediorientale. Ha assistito
all’assedio dell’Isis a Kobane, la città siriana di fronte a Suruc,
prendendo a bastonate i volontari curdi al suo confine: eravamo lì il
primo ottobre 2014. Il risultato è stato che non solo i curdi siriani si
sono liberati dal Califfato ma adesso con l’aiuto di russi e americani
avanzano e si sono ritagliati il Rojava, un’area autonoma alla
frontiera.
Erdogan minaccia di entrare in territorio siriano per
tenerli a bada perché si sta materializzando il peggiore incubo
strategico di Ankara: un possibile stato curdo ai suoi confini. Vorrebbe
portare il conflitto contro i curdi al di là della frontiera,
travestendolo da una guerra contro il Califfato che non ha mai
combattuto. Anzi è stato proprio lui con l’ex premier Davutoglu ad
aprire l’”autostrada” della Jihad” per convogliare in Siria gli
estremisti islamici che avrebbero dovuto abbattere il regime di Assad,
altro calcolo sbagliato del leader turco che cinque anni dopo si trova a
fronteggiare anche la Russia di Putin. Sia chiaro: questi errori non
sono stati soltanto suoi ma anche dell’ex segretario di stato signora
Hillary Clinton e della Francia che pensavano di usare la Turchia come
testa di ponte.
L’escalation è stato il risultato di un’altra
decisione fatale. La road map di Erdogan è stata semplice e brutale:
rottura dei negoziati con Abdullah Ocalan, il carismatico capo del Pkk
incarcerato a Imrali, dichiarazione dello stato di assedio nell’Anatolia
del Sud Est, nuove azioni di guerra contro il Pkk e scioglimento del
parlamento dove nel giugno 2015 erano entrati per la prima volta i
deputati del partito-filo-curdo Hdp di Demirtas. In un clima di
conflitto interno e segnato da attentati spaventosi ha convocato
elezioni a novembre dove ha stravinto e ora si prepara a varare piani
per una repubblica presidenziale espellendo i curdi dall’assemblea
nazionale. Nessuno ferma Erdogan e ora l’indignazione occidentale appare
tardiva anche un po’ ipocrita.