Corriere 4.6.16
Uno squarcio dalle zone off limits Così Erdogan bombarda i curdi
di Lorenzo Cremonesi
Carri
armati schierati alle entrate dei villaggi e sulle alture dominanti.
Ogni tanto uno sparo, o un rombo più cupo, con rumori di macerie smosse e
raffiche isolate. Ma a fare più impressione sono le voci umane,
ovattate, lontane, brusii, eppure ben distinguibili: il grido di un
bambino, acuti di donne, urla nel cielo. Era quello che si poteva
osservare e udire già a fine dicembre scorso dalle regioni siriane
controllate dalle milizie curde confinanti con la Turchia sud-orientale.
«È un massacro. L’esercito turco impone il coprifuoco e poi attacca,
ricorre alla forza bruta in modo indiscriminato, spara sui civili,
uccide e non permette l’arrivo delle ambulanze, ci sono cadaveri nelle
cantine», gridavano i pochi profughi che riuscivano a fuggire da Cizre,
Nusaybin, Mardin, Ceylanpinar, ma anche dalla città di Batman e persino
da Diyarbakir, più all’interno, considerata la «capitale» dei curdi in
Turchia. Ieri le autorità turche hanno annunciato la fine delle
operazioni anti terrorismo a Sirnak e Nusaybin.
Ogni venerdì
pomeriggio i responsabili delle Ypg e Ypj, rispettivamente le formazioni
armate maschili e femminili dei curdi siriani si coordinavano con i
«fratelli e sorelle» del Pkk (l’organizzazione paramilitare dei curdi in
Turchia accusata di terrorismo da Ankara e parte della comunità
internazionale) per inscenare manifestazioni di protesta lungo il
confine, proprio di fronte ai fili spinati e i campi minati. Ma poteva
essere pericoloso. Capitava che i cecchini turchi girassero i fucili ad
alta precisione e sparassero diretti nella folla, causando vittime.
Allora
l’attenzione internazionale era però soprattutto concentrata sulla
guerra contro Isis. La repressione turca contro la minoranza curda
passava come l’ennesima ondata di violenze locali, l’ultima di una lunga
serie. Oggi la situazione è diversa. Sono proprio le testimonianze di
pochi coraggiosi come Faysal Sariyildiz, oltre ad attivisti locali per i
diritti umani e uno sparuto gruppo di fotografi e giornalisti ad
enfatizzare un quadro estremamente grave.
Recep Tayyip Erdogan ha
scelto la guerra aperta contro i curdi. In pochi mesi il presidente
sempre più sultano è tornato allo scontro frontale in risposta al
terrorismo degli estremisti curdi, i quali a loro volta reagiscono con
nuovi attentati, provocando una catena di violenze infinite. È il
collasso della parentesi del dialogo: quello che dalla metà del 2012 al
giugno dell’anno scorso aveva visto negoziati diretti addirittura tra
Erdogan e Abdullah Ocalan, il leader indiscusso del Pkk chiuso nelle
carceri turche dal 1999. Ormai quel cessate il fuoco è morto e sepolto.
In Turchia si è tornati ai periodi peggiori della lunga guerra tra Stato
e Pkk, che dal colpo di Stato militare nel 1980 a cinque anni fa aveva
provocato più di 40.000 morti, la distruzione di almeno 3.000 tra
villaggi e cittadine, oltre alla metodica persecuzione culturale e
linguistica dell’identità curda.
Una minoranza controversa, in
dubbio soprattutto dopo lo smantellamento dell’Impero Ottomano, la
nascita dello Stato moderno nel 1923 e l’esaltazione del nazionalismo
kemalista assolutamente determinato ad enfatizzare l’omogeneità del
Paese contro ogni forza centrifuga. Risulta tabù persino il loro numero.
Quanti sono? Oltre il 30% della popolazione, come sostengono loro; o
meno del 10%, come dice il governo?
Il problema maggiore nel
conoscere, approfondire e diffondere la dimensione della guerra anti
curda è ora costituito dalla censura contro giornalisti, blogger e
chiunque provi a recarsi sui posti. Erdogan è impegnato in prima
persona. «Qui è peggio di Kobane», grida la gente di Cizre. Quasi
135.000 persone sotto coprifuoco duro da metà dicembre, come del resto
lo sono gli abitanti di Diyarbakir e un numero enorme di nuclei urbani
minori sparsi sino sulle montagne al confine con il Nord Iraq.
Ankara
denuncia che centinaia di suoi soldati sono stati uccisi e proclama
l’eliminazione di 600 «terroristi». I curdi parlano di forse 2.000 morti
tra la loro gente. Ma verificare questi numeri resta estremamente
difficile. Le zone sotto coprifuoco sono bloccate. I giornalisti locali
vengono arrestati se provano a parlarne. Quelli stranieri vengono
espulsi. Visti negati, uffici perquisiti e chiusi: per non avere guai
molti tra la stampa estera in Turchia evitano di recarsi nelle zone
difficili.
Sembra l’Iraq ai tempi di Saddam. Tanti tra i quasi
2.000 docenti turchi che pochi mesi fa hanno firmato un appello pubblico
per porre fine alla repressione sono stati licenziati o restano sotto
inchiesta. Diversi fotografi che hanno provato a raggiungere quelle
regioni sono stati minacciati, gli apparecchi requisiti. Agli aeroporti
gli agenti possono controllare persino computer e cellulari per
verificare che non vi siano video o immagini «vietate». Pochi giorni fa
una docente europea che insegna ad Ankara raccontava che le autorità
chiedono «discrezione» e «autocensura». Chiunque tra gli stranieri parli
pubblicamente della questione curda rischia il posto e non poter più
lavorare nel Paese.