Il Sole 10.6.16
La cattiva supplenza alla politica che non decide
Dopo
la sentenza della Corte di cassazione con cui è stato dichiarato che,
nel pubblico impiego, si applica ancora il vecchio articolo 18, senza le
modifiche introdotte per i licenziamenti disciplinari ed economici
dalla riforma Fornero del 2012, sarebbe facile accusare la magistratura
di incoerenza. In pochi mesi, la Cassazione (seppure in sezioni
differenti) è giunta a conclusioni opposte. Di ieri la decisione
sull’inapplicabilità, per i dipendenti pubblici, dell’articolo 18 così
come modificato dalla legge Fornero (che, lo ricordiamo, ha ricondotto i
licenziamenti disciplinari illegittimi a fatti insussistenti o a
condotte punite con sanzioni conservative nei contratti collettivi o nei
codici disciplinari). Lo scorso novembre, invece, la Corte ha optato
per l’uniformità tra pubblico e privato.
Tuttavia, se ci
limitassimo ad analizzare le eventuali incongruenze nel ragionamento
della Corte rischieremmo di prendere di mira l’effetto e non la causa
del problema, che sembra figlio di un’indecisione di fondo della
politica.
Il dibattito seguito al decreto legislativo 23/2015, sul
pubblico impiego ricompreso o meno nell’alveo delle tutele crescenti, è
esemplificativo. Le argomentazioni degli esperti e degli opinion maker
sono state messe a tacere dal Governo: la questione sarebbe stata
risolta con la riforma del pubblico impiego.
La soluzione non è
mai arrivata e la questione resta aperta. Un problema analogo si è
verificato (come confermano le sentenze opposte della Cassazione) con la
legge Fornero, che ha rinviato al confronto tra Governo e
organizzazioni sindacali la definizione circa «gli ambiti, le modalità e
i tempi» dell’armonizzazione della disciplina del pubblico rispetto al
privato.
L’indecisione della politica, con la tecnica del rinvio,
ha prodotto norme “reticenti” su questioni di fondo. La legge Fornero e
il Jobs act non dicono mai espressamente che la riforma sui
licenziamenti si applica solo al lavoro privato. Da qui le decisioni
contrastanti della Cassazione su un aspetto non di dettaglio della
disciplina giuslavoristica.
In questo modo è stato sconfessato
quel processo di “privatizzazione” del pubblico impiego che avrebbe
dovuto equiparare le regole vigenti per modernizzare l’amministrazione
statale. Questa scelta sembra essere stata abbandonata: è iniziata una
lenta e costante opera di demolizione del principio, probabilmente per
ragioni di consenso. Si arriva così al paradosso di lasciare ai giudici
la decisione sul regime dei licenziamenti per i pubblici dipendenti, con
il rischio di creare - inseguendo la corretta interpretazione di una
legge sibillina - una discriminazione nel trattamento tra i dipendenti
pubblici e quelli privati. E non varrebbe, come giustificazione, il
fatto che i pubblici dipendenti sarebbero giustamente destinatari di una
diversa tutela in quanto devono garantire il buon andamento della
pubblica amministrazione.