il manifesto 8.6.16
Astensione: non chiamatelo disinteresse
di Marco Almagisti e Paolo Graziano
Anche
le elezioni amministrative di domenica 5 giugno vedono affermarsi quale
«primo partito» quello dell’astensione, in crescita peraltro (nel
complesso, gli astensionisti sono aumentati di 5 punti percentuali
rispetto alle elezioni precedenti). Ma siamo sicuri che si tratti di una
crisi della partecipazione politica? O non dovremmo piuttosto parlare
di crisi di legittimità dei partiti, non più percepiti quali vettori di
partecipazione politica efficace? Non sarebbe quindi meglio parlare di
crisi della partecipazione elettorale? Se guardiamo alla società
contemporanea, è possibile notare la compresenza di processi diversi:
alla crescita dell’astensionismo si accompagna l’aumento di altre forme
di partecipazione, che la scienza politica tradizionale ha definito «non
convenzionali», basandosi sulla prospettiva che la manifestazione
tipica di soggettività politica del cittadino consista nell’andare a
votare alle scadenze periodiche, per poi rimanere sostanzialmente
inerte.
Tuttavia, mentre la partecipazione elettorale diminuisce,
nella società si diffondono nuovi movimenti, gruppi ambientalisti e di
consumo critico, comitati locali che sovente si muovono fuori dai canali
consueti della rappresentanza. Spesso queste manifestazioni vengono
etichettate attraverso la definizione fuorviante di «antipolitica», solo
per il fatto di nascere e articolarsi fuori dal perimetro dei partiti
tradizionali. Lungi dal far comprendere meglio la natura di tali
fenomeni innovativi, la definizione di «antipolitica» spesso riflette la
diffidenza diffusa in parte del ceto politico e di quello intellettuale
verso tutto quanto esula dalla politica convenzionale e dall’offerta
politico–partitica tradizionale.
Risulta infatti difficile negare che
il movimento anti-Ttip, i gruppi di acquisto solidale o i comitati in
difesa dell’ambiente pongano questioni fortemente politiche. Si tratta
di un mondo eterogeneo, che purtuttavia spesso svolge spesso la funzione
di «politicizzare le politiche pubbliche», secondo un’efficace
definizione di Giovanni Moro, ossia di rimettere nei processi
decisionali voci altrimenti escluse. Non è affatto detto che queste
forme di soggettività politica non possano poi riversarsi, almeno in
parte, nei canali della rappresentanza partitica-parlamentare, ove ve ne
sia data l’occasione; ossia quando si presenti l’opportunità di
rappresentare anche in sede istituzionale i conflitti che gruppi e
movimenti fanno affiorare.
La «narrazione» neo-liberista tende a
rimuovere il conflitto e, pertanto, a considerare quali anomalie
passeggere (e fastidiose) le diverse forme di contestazione; nella
patria di Machiavelli dovremmo invece sempre ricordare che il conflitto è
consustanziale alla politica: ad esempio, il conflitto tra élite e
cittadini è divenuta una linea di frattura acutissima, a seguito del
discredito di cui oggi godono le classi dirigenti degli Stati nazionali
che faticano a governare i processi globali, determinando ciò che troppo
facilmente è stata definita come l’emergenza populista.
Un’altra
linea di frattura attuale è l’immigrazione. E spesso, com’è accaduto in
Austria di recente, l’avversità all’immigrazione si somma a quella verso
le «caste».
Tuttavia, la sfiducia e la critica, nei confronti delle
classi dirigenti non sempre si salda con la protesta anti-immigrazione e
non sempre è destinata a gonfiare le vele dei partiti della destra
radicale.
La crisi economica che dura dal 2007 e le politiche di
austerità stanno provocando una profonda ridefinizione della sinistra in
tutta Europa. Pur con tutte le differenze del caso, in Grecia con
Syriza e in Spagna con Podemos si sono affermate nuove formazioni di
sinistra più radicali, ma non estremiste, che hanno contestato le forze
politiche tradizionali, comprese quelle appartenenti all’Internazionale
socialista, considerate incapaci di offrire proposte alternative
all’austerity.
L’Inghilterra ha seguito altre dinamiche: la stabilità
del sistema (bi)partitico britannico non ha consentito la nascita di
nuove formazioni significative, ma il socialista radicale Jeremy Corbin è
arrivato alla guida del Labour Party, conquistando la base del partito
con la sua proposta contraria alla «Terza via» e all’eredità di Tony
Blair. In altro contesto, anche Bernie Sanders in America è parte di una
tendenza critica rispetto alla crisi della globalizzazione neoliberale:
un Senatore del Vermont, settantaduenne, ex hippy, che si definisce
socialista, si presenta alle primarie del Partito democratico e ottiene
una valanga di voti, soprattutto fra i più giovani. Un segnale da non
trascurare.
Queste esperienze nascono dalla critica dell’élite
partitica che ha sostenuto politiche di austerity o neoliberali . Ma, a
differenza di quelle di destra (e del Movimento Cinque Stelle in
Italia), tali critiche non si saldano alla linea di frattura
anti-immigrazione. Bensì puntano il dito contro le politiche
macroeconomiche che producono disuguaglianza, denunciano l’impoverimento
del ceto medio e l’aumento della distanza fra i ricchi e i poveri della
società.
I risultati elettorali ci dicono che la sfiducia aumenta,
mentre nei prossimi mesi vedremo se ci saranno cambiamenti nel mondo
partitico che porteranno alla nascita di soggetti interessati a tali
questioni anche in Italia, oppure se il Movimento Cinque Stelle manterrà
il monopolio delle forme di protesta.