Corriere 8.6.16
il sistema parlamentare garanzia di democrazia
di Valerio Onida
Caro
direttore, ha sicuramente ragione Michele Salvati («Perché la riforma
riguarda tutti ed è solo il primo passo», nel Corriere del 30 maggio)
quando dice che la riforma costituzionale «è problema troppo serio per
essere affidato ai soli costituzionalisti», ed è piuttosto «un problema
storico-politico».
Ma quale problema? Quello di passare
(finalmente, dice Salvati) a una «Seconda Repubblica», e quindi di
distaccarci decisamente dai caratteri fondamentali della Repubblica nata
con il referendum del 1946 e con la Costituente? Questa, dal mio (e non
credo solo mio) punto di vista non è una prospettiva allettante, è
piuttosto una minaccia. Sono almeno venticinque anni che taluno
vagheggia una «Seconda Repubblica», e i prodromi e le tendenze che si
sono visti o intravisti sono tutt’altro che rassicuranti. Salvati muove
anch’egli, come altri fautori delle «grandi riforme», dall’idea che il
nostro sistema costituzionale sia caratterizzato da un eccesso di poteri
di freno e da una endemica debolezza dell’esecutivo, visto invece come
unico potere chiamato a decidere; e che ciò sia storicamente dovuto alla
scelta di settanta anni fa di voler «imbrigliare un partito
antisistema» (il Partito comunista) che si temeva potesse ottenere la
maggioranza elettorale. Ma davvero si pensa che se il Partito comunista
degli anni Quaranta del Novecento avesse conquistato la maggioranza
elettorale nel Paese il bicameralismo (per dirne una) avrebbe costituito
un freno efficace a rischi di abbandono del terreno della democrazia
liberale? Davvero si pensa che le forze di ispirazione schiettamente
democratica che diedero vita alla Costituzione, se non ci fosse stato il
Partito comunista, avrebbero scelto un diverso sistema istituzionale
fortemente accentrato e basato sui poteri dell’esecutivo, abbandonando
il classico terreno delle democrazie di massa europee, cioè il
parlamentarismo?
In realtà il sistema parlamentare, assicurando la
consonanza di legislativo e esecutivo (perché il governo non ha altra
legittimazione se non quella che gli deriva dalla fiducia della
maggioranza parlamentare), è quello meglio in grado di consentire ad una
maggioranza di realizzare i propri programmi, non solo in via
amministrativa, ma anche promuovendo e guidando la formazione delle
leggi che esprimono e traducono il suo indirizzo politico. O si dovrebbe
preferire un sistema all’americana, dove il presidente dura in carica
quattro anni, ma ogni due anni entrambe le Camere si rinnovano (una per
intero, l’altra per un terzo), e se la maggioranza del Parlamento non è
d’accordo col presidente questi non ha strumenti, (né la questione di
fiducia, né il potere di scioglimento anticipato delle Camere) per
tradurre il suo programma in leggi e in decisioni di spesa (il bilancio
dello Stato infatti dipende dal Parlamento)?
Il nostro sistema
parlamentare è quello che, dal punto di vista istituzionale, meglio
consente alla maggioranza di governare, sia pure nel rispetto delle
garanzie di tutti e sotto il controllo delle opposizioni.
Ma, si
dice, le maggioranze faticano a comporsi, o si disfano spesso, o sono
divise, e dunque il processo decisionale non riesce ad esplicarsi con
efficacia: solo un governo (anzi, un capo del governo), che possa per
tutta la legislatura decidere senza impacci e condizionamenti, potrà
governare con efficacia. Qui si svela il vero sogno dei fautori delle
«grandi riforme»: il sogno (o per altri, come noi, l’incubo) dell’«uomo
solo al comando». La realtà è che il sistema costituzionale è in grado
di offrire ed offre la possibilità di costruire e attuare processi
decisionali efficienti, ma perché essi possano operare ci vogliono delle
condizioni politiche: è la politica, bellezza, viene da dire. Al di
fuori di queste, le istituzioni, di per sé, possono solo offrire strade
di impoverimento della democrazia rappresentativa (occorre un unico
«vincitore», e non importa quale consenso abbia dietro di sé); oppure la
scorciatoia di torsioni di tipo autoritario. È questo che alla fine
vogliamo?
Dire «condizioni politiche», in democrazia, vuol dire
necessità che si riescano a promuovere, costruire, mantenere soluzioni
sufficientemente condivise. Che non vuol dire solo, si badi, dar vita e
tenere unita una maggioranza parlamentare sufficientemente coesa intorno
agli obiettivi cui le decisioni politiche tendono. Ciò è certo
auspicabile, e il ruolo costituzionale dei partiti (intesi come
strumenti di partecipazione politica, e non come puri gruppi di potere) è
appunto questo. Ma la condivisione in politica ha molti aspetti.
C’è
anche, ci può essere anche, una condivisione più ampia o talora perfino
diversa da quella che dà vita alle maggioranze di governo. Nel 1970 la
legge sul divorzio fu varata in Parlamento sulla base di un consenso
(poi confermato dagli elettori) diverso da quello su cui si fondava la
maggioranza di governo dell’epoca. Più in generale, il confronto fra
maggioranza e opposizioni non può reggersi solo su una aprioristica
contrapposizione a tutto tondo e senza eccezioni. Può e deve contemplare
piani diversi anche di condivisione e di confronto: senza che su ogni
tema o sottotema la dialettica si traduca sempre e necessariamente in
uno scontro senza quartiere, in cui ognuno è chiamato non tanto a
sostenere le proprie idee quanto a reggere un gioco delle parti; senza
che ogni convergenza al di fuori dei confini della maggioranza del
momento debba spregiativamente qualificarsi come forma di negativo
«consociativismo» (anche la comunità politica è fatta di consoci).
Il
«miracolo» dell’elaborazione ampiamente condivisa e dell’approvazione
pressoché unanime della Costituzione del 1947 (in una congiuntura
politica che negli ultimi mesi della Costituente vide fra l’altro la
spaccatura della maggioranza di governo, e il passaggio ad una diversa
alleanza, quella centrista) si spiega proprio come il risultato prezioso
voluto e raggiunto da una classe politica che capì fino in fondo il
senso dell’operazione costituente e le ragioni di unità che stavano a
base della Costituzione.
Ma, per venire a vicende a noi più
vicine, qualcuno forse può pensare che la democrazia italiana sarebbe
uscita complessivamente indenne dagli anni dello stragismo (da piazza
Fontana alla stazione di Bologna) e dagli anni della sfida del partito
armato (fino al rapimento e all’uccisione di Aldo Moro), se non vi fosse
stata una capacità delle forze politiche allora dominanti, di
maggioranza e di opposizione, di cercare e trovare terreni di
convergenza e di intesa sull’essenziale?
Mettere mano alla
Costituzione, lo si dovrebbe fare sempre e solo in questo spirito.
Questa è la «politica» degna del nome, non quella contro cui sempre più
italiani sembrano oggi concepire solo fastidio e disprezzo, quella
fatta, secondo l’immagine oggi purtroppo accreditata anche dall’alto, di
«poltrone» da possibilmente sopprimere per ridurne i «costi».