il manifesto 8.6.16
Quando andavamo davanti alla fabbrica
Sinistra.
Quando, negli anni ’60 e ’70, in periferia a Roma, si respirava un
clima di legittimazione della politica. Adesso sembra un sogno non la
realtà vissuta da noi studenti che venivamo riconosciuti e accolti dagli
operai
Street Art a Tor Marancia, Roma
Rita Di Leo
Edizione del
08.06.2016
Pubblicato
7.6.2016, 23:59
Finalmente è emerso il problema del fossato che divide l’elettore delle periferie popolari da quello del centro del ceto medio.
Il
problema è la perdita dell’elettore che vive in periferia da parte
delle forze politiche, un tempo sue legittime voci. In periferie abitano
disoccupati e precari, italiani e immigrati. Gli italiani sopravvivono
perché le loro mogli, sorelle, donne vanno al centro a fare “i servizi”.
I non italiani sono prontissimi a fare qualsiasi lavoro a qualsiasi
salario. Sono “crumiri” involontari, odiati dai disoccupati che sentono
la loro concorrenza come una prepotenza da cui nessuno li difende. E
anzi: dalla Caritas sino alla gran maggioranza dei mass media, il
lavoratore immigrato viene legittimamente considerato come una risorsa
economica, demografica, culturale, ecc.
Il disoccupato italiano (e
l’edile romano) vive una solitudine sociale e politica senza luoghi e
esseri umani cui rivolgersi. Nelle sedi del sindacato e nelle sezioni
dei partiti non mette più piede perché non è interessato ai diritti
degli omosessuali e all’utero in affitto, le questioni su cui
solitamente lì si discute. Le “sue” questioni riguardano i suoi bisogni,
il lavoro, la casa, i trasporti.
All’origine del declino delle
forze politiche vi è la transizione – culturale prima che politica – dai
bisogni delle periferie popolari ai diritti del ceto medio
progressista.
Quando e perché vi è stata la transizione potrebbe essere oggetto di una disamina tra i lettori del manifesto.
Il
mio contributo è una testimonianza su come era lo stato delle cose
prima della transizione, ormai tantissimo tempo fa. Negli anni
sessanta/settanta del Novecento andavamo “a fare politica” nei cantieri
edili e nelle borgate, eravamo tutti studenti, tutti con la ferma
intenzione di dare la carica giusta al sindacato e al partito. Fare
politica con gli edili significava dare battaglia perché si attivassero
con la Camera del Lavoro (di Angelo Fredda) per avere il delegato di
base nel cantiere.
Fare politica dinanzi alla Fatme e alla
Fiorentini, le due fabbriche più importanti, significava più tessere per
la Cgil, sempre discriminata, e mettere il naso nelle sezioni del Pci
dove erano iscritti gli operai perché mandassero via i vecchi funzionari
e eleggessero un segretario operaio.
Quando tutto ciò finì:
quelle fabbriche chiusero e nei cantieri edili i ‘capoccetta’ non ci
fecero più mettere piede, abbiamo avuto molto tempo per prenderci in
giro su quel nostro “fare politica”. Una cosa però allora era chiara: il
nostro operaismo si scontrava con l’altro, quello ufficiale proprio
nelle periferie che frequentavamo.
Dove si respirava un clima
culturale di legittimazione della politica che adesso sembra un sogno,
non una realtà vissuta. Quando a Tiburtino terzo ci vedevano scendere
dal bus, mettevano sul giradischi Bandiera Rossa, e non Bella Ciao.
Eravamo
andati a trovarli sin lì, a chiacchierare del sindacato, del partito, e
ci festeggiavano inconsapevoli oppure indifferenti del fatto che per il
sindacato e per il partito di Roma, quei quattro studenti erano
presenze non gradite.
La mia testimonianza consiste nella
certificazione diretta che in periferia edili e operai, partito e
sindacato stavano da una parte e dall’altra c’era il potere con la P
maiuscola, la polizia che menava alle manifestazioni, la democrazia
cristiana che si faceva viva solo al momento del voto, e c’erano i
padroni che non volevano il sindacato e discriminavano i comunisti.
Nessuno dubitava che le parti erano due e anche le forze politiche,
l’una contro l’altra. Una rappresentava i bisogni del lavoro, l’altra
gli interessi di chi comprava il lavoro. E intendeva comprarlo al minor
prezzo possibile e alle migliori condizioni di utilizzo. Lo scontro tra
le due rappresentanze sociali era nell’aria che si respirava.
E
sul suo esito, vale a dire sulla fine dello scontro che bisognerebbe
fare chiarezza. Sinora si sono assunte per oggettive le motivazioni di
chi ha vinto lo scontro. E cioè il progresso tecnologico ha emarginato
l’operaio di mestiere, la globalizzazione ha da un lato inondato il
mercato di beni di largo consumo a prezzi concorrenziali e dall’altro ha
fatto arrivare da luoghi lontani lavoratori oggettivamente crumiri.
E dunque lo scontro era impari e non lo si è affrontato.
Si
è invece passati dai bisogni ai diritti. Dopo tutto i diritti sono
universali e di conseguenza riguardano anche gli uomini del lavoro.
La
centralità dei diritti rispetto ai bisogni è stata la scelta che ha
messo le periferie popolari contro le forze politiche che sino allora le
avevano tradizionalmente rappresentate. Si tratta di una scelta
culturale e sociale che ha cambiato il paese.
E’ un cambiamento di cui vorrei dare ancora una volta una testimonianza diretta.
Pochi
anni fa mi trovavo in un paesino toscano dove prima il Pci (e poi le
sigle che diversamente lo hanno denominato) prendeva alle elezioni la
maggioranza dei voti. C’era la festa dell’Unità e gli organizzatori
avevano promesso di proiettare un film.
I presenti erano quasi
tutti mezzadri, operai agricoli con mogli e figli. Arrivarono due
ragazzi con il proiettore e la pizza del film. Silenzio e sullo schermo
invece di Novecento di Bertolucci o di Rocco e i suoi fratelli di
Visconti, appaiono i titoli de L’attimo fuggente, la storia di un liceo
privato conservatore americano e di un giovane professore progressista.
Dopo
un po’ mi voltai per osservare la reazione dei mezzadri: era stata più
drastica che mai, se ne erano andati via. Spariti come i voti delle
periferie popolari.