il manifesto 7.6.16
Astensione: ha cominciato la politica a mollare il popolo
di Alfio Mastropaolo
Nel
suo editoriale di domenica, Ilvo Diamanti, che è uno dei più acuti
interpreti degli umori degli italiani, ha argomentato che il non voto
non è peccato. È segno di disaffezione, consueto in tutte le democrazie
avanzate. Sennonché, come hanno mostrato i risultati del primo turno
delle amministrative, il non voto non sarà peccato, ma può fare molto
male. Se è segno di disaffezione legittimo, testimonia pur sempre una
grave condizione di malessere dei regimi democratici.
Quello degli
astensionisti è un non voto (o una forma di voto) che va scomposto. C’è
l’astensionismo strutturale, di coloro che sono estranei alla politica.
Provengono dai gruppi sociali meno attrezzati sul piano culturale e
anche economicamente e socialmente più deboli. A tale astensionismo
strutturale si somma l’astensionismo consapevole, di chi intende
manifestare il suo dissenso verso la politica e i suoi attori e non vota
perché ritiene di non disporre di altri strumenti.
Negli ultimi
decenni, questo tipo di astensionismo è cresciuto esponenzialmente. Come
ne è cresciuto un terzo tipo: quello di coloro che sono socialmente e
economicamente in sofferenza, ma ai quali un tempo se non altro la
politica dedicava specifiche attenzioni. Ovvero, che in qualche modo
coinvolgeva. Lo faceva in vario modo, tramite le macchine di partito, ma
pure tramite le pratiche clientelari. Senza fare l’elogio di queste
ultime, erano se non altro una tecnica di coinvolgimento.
Se
sottraiamo l’astensionismo strutturale, che negli anni Ottanta superava
alle politiche di poco il 10%, l’astensionismo «politico», quello
intenzionale e quello frutto dell’abbandono da parte della politica,
riguarda quasi 3 elettori su 10. Si dirà che quelle di domenica erano
solo elezioni locali. Ma è consolazione modesta e i numeri fanno pur
sempre impressione, anche perché condizionano il risultato. Siamo certi
che gli astenuti, ove avessero votato, si sarebbero equamente
distribuiti tra tutti i partiti?
L’astensionismo dunque non è un
bel segnale e fa pure danno. Specie se lo si accoppia alla percentuale
imponente raggiunta dal voto di protesta. Il dato non è omogeneo, ma fa
pur sempre impressione che un terzo dei votanti torinesi e di quelli
romani si siano pronunciati per il Movimento 5 stelle, cioè per un
partito che ha fatto dell’avversione contro tutti i partiti il proprio
fondamento. Neanche questo è peccato, ma oltre metà degli italiani
odiano la politica. Meglio: odiano questa politica e odiano quanti la
interpretano. E si rivolgono all’antipolitica, che è politica anch’essa,
seppur condotta con altri mezzi e in altre forme e che da tempo dilaga
senza freni facendosi portatrice di progetti che è riduttivo definire
modesti.
Oggi la Lega governa in due importanti regioni, dopo aver
governato il paese. Ma resta ancora antipolitica. Il berlusconismo è
disordinatamente in rotta, ma è stato una forma di antipolitica. Lo
stesso successo di Matteo Renzi ha una non secondaria componente
antipolitica. A propiziare la sua ascesa fu la promessa – antipolitica –
di «rottamare» la vecchia politica, confermata con qualche gesto di
rottura tra il suo insediamento a palazzo Chigi e le elezioni europee
del 25 maggio 2014, che come sappiamo lo premiarono. Cioè premiarono la
sua antipolitica, di cui però gli elettori non si contentano più.
Piero
Fassino, che ha lunga e solida esperienza politica, è il solo che ha
avuto il coraggio di abbozzare un’analisi a caldo, imputando il
risultato elettorale, anche per lui non lusinghiero, alla crisi sociale.
Difficile è dargli torto. Salvo che la sua analisi s’è fermata a metà.
Innanzitutto è da un quarto di secolo che l’Italia vive un’estenuante
crisi sociale e economica, che si è solo drammaticamente aggravata in
ragione della crisi finanziaria esplosa nel 2008, così come vive una
terribile crisi morale, esplosa con Tangentopoli e non ancora superata,
Tant’è che da un quarto di secolo il tarlo dell’antipolitica la corrode.
Bisognava accorgersene prima. Così come, adesso, sarebbe il caso di
chiedersi. cosa che Fassino non fa, se per caso il risultato elettorale
non sia pure tributario delle repliche opposte dalla politica all’una e
all’altra crisi.
Sono state, diciamolo, risposte inadeguate. Sono
state inadeguate quelle alla crisi economica e sociale. È ben vero che i
margini di manovra della politica nazionale sono stati severamente
compressi dai vincoli esterni. Non entriamo nel merito: ma possiamo
almeno domandarci se le politiche adottate, all’insegna dell’austerità,
fossero le più convenienti e senza alternative? Quant’altro dovranno
pagare gli italiani in riduzioni di stipendi, salari, servizi pubblici, e
in aumenti di imposte, perché la crescita raggiunga almeno la media
della crescita europea? Conviene proprio insistere con simili politiche e
disinvestire nella scuola, negli ospedali, nelle pensioni, nella
manutenzione del territorio, magari per pagarsi lussuosi sistemi d’arma?
E
che non siano state del pari inadeguate le risposte più strettamente
politiche? Suvvia, come negare che, oltre a governare in maniera
deludente la politica ha preso le distanze dai cittadini? Mentre la
crisi economica li maltrattava, la politica vi ha aggiunto la sua
indifferenza. Non attenuata né da qualche esibizione televisiva condita
di antipolitica, né da un’improvvisata pseudo-abolizione del senato. Per
contro l’indifferenza è ribadita dall’immoralità non dissimulata di una
parte non secondaria del personale politico e dai privilegi che la
classe dei politici spudoratamente esibisce. Così come esibisce i suoi
stretti rapporti di comparaggio con i poteri che contano. Come non
notare che la politica odierna è fatta d’intrecci coi potentati
economici e finanziari e di poco trasparenti circuiti che combinano
affari e si spartiscono prebende, infischiandosene in compenso dei
problemi dei cittadini?