martedì 7 giugno 2016

il manifesto 7.6.16
La grande fuga del partito renziano
Analisi. I voti assoluti raccontano l'esatta dimensione della debaclé. È sparito un elettore su quattro nel confronto con le comunali del 2011. E le cose vanno molto peggio nel paragone con le europee e le politiche. Tracollo omogeneo nel tempo e nelle città. Il caso Fassino: la "mutazione genetica" dell’elettorato dem
di Andrea Fabozzi

Disastro assoluto a Napoli, disastro relativo a Milano. In mezzo una serie di brutte notizie, nella scala dal dramma alla tragedia. È il risultato del partito democratico nei sette capoluoghi di regione dove si è votato domenica. Il risultato per il quale Renzi ha detto «non sono soddisfatto».
La dimensione della sconfitta si può cogliere solo analizzando i voti veri e non le percentuali. Il confronto va fatto con le elezioni comunali del 2011 (2013 per Roma). È il più corretto trattandosi di appuntamenti elettorali omogenei, in quattro casi su sette (Trieste, Torino, Bologna e Cagliari) con lo stesso candidato dem. Ma in cinque anni troppo è cambiato nel panorama politico. Il Pd della primavera 2011 era quello guidato da poco più di un anno da Bersani, ancora all’opposizione del governo Berlusconi. Si può allora confrontare il risultato di domenica con le elezioni politiche del febbraio 2013, quelle che hanno segnato il potente ingresso sulla scena nazionale del Movimento 5 Stelle. Anche allora, però, come nel 2011, Renzi era soltanto il sindaco di Firenze. Dunque si può anche tentare un confronto con le ultime elezioni europee, vicine nel tempo (2014) e primo test del Pd renziano.
I confronti sono fatti naturalmente sulla base dei voti assoluti nelle sette città, aggiungendo per le comunali al risultato del Pd quello delle liste civiche di diretta emanazione del partito (e cioè quelle con il nome del candidato democratico nel simbolo).
Bisogna dire subito che qualsiasi città si prenda in esame e qualsiasi elezione si confronti, l’erosione dei voti del Pd è sempre alta, sempre in doppia cifra percentuale. Quando diminuisce l’affluenza, come generalmente è accaduto, ma anche in quei pochi casi in cui l’affluenza è cresciuta. Napoli e Roma sono sempre al fondo della classifica, sia nel paragone disastroso con le europee (-62% dei voti a Napoli, qualcosa come 81mila voti svaniti, e -50% a Roma, e cioè 257mila voti perduti), sia in quello non troppo diverso con le politiche (-55,9% a Napoli e -45,9% a Roma) sia in quello solo un po’ meno triste con le comunali del 2011 (-47,4% a Napoli e -27,3% a Roma). Milano è invece il comune in cui il Pd ha perso meno voti assoluti, ma solo nel confronto con le elezioni più vicine (-28,3% rispetto alle europee e -11,3% rispetto alle politiche) mentre se si guarda alle comunali del 2011, Milano arriva terza, dopo Napoli e Roma, nella classifica delle peggiori: -24,1% e cioè oltre 58mila voti andati in fumo.
L’erosione di voti a Torino risulta essere tra le meno pesanti sia nel confronto con le europee (-35,8, è tanto ma meglio, o piuttosto meno peggio, ha fatto solo Milano) sia in quello con le politiche (-16,4%) sia in quello con le comunali (-16,7%). Al centro di questa classifica dei dolori ci sono Bologna (-34,9% rispetto al 2013) e Cagliari (-44,5% di nuovo rispetto al 2013). Ma il capoluogo sardo – l’unico dove ha retto l’alleanza di cinque anni fa e dove il sindaco uscente Zedda ha vinto al primo turno – è quello che più di tutti ha limitato le perdite rispetto al 2011, lasciando comunque per strada il 14,9% dei voti veri. Nel complesso delle sette città capoluogo di regione, il Pd ha perso in cinque anni oltre 218mila voti, passando da 913.403 a 695.290: è stato in altre parole abbandonato dal 23,4% dei suoi vecchi elettori. Quasi uno su quattro.
La cosa interessante di queste classifiche ottenute confrontando i risultati di tre elezioni diverse, è che la graduatoria delle sconfitte si conferma praticamente identica: ci sono sempre Napoli e Roma alla testa del disastro e Milano alla coda, salvo nel caso del confronto con le comunali dove Milano e Cagliari si scambiano il posto: è Cagliari a fare un po’ meglio. È un dato interessante perché dal punto di vista delle affluenze alle urne non c’è affatto questa regolarità. Cagliari, che come abbiamo visto è la città con Milano dove il Pd in qualche modo perde ma non tracolla, soprattutto nel confronto con le comunali, è tra quelle che soffre meno per l’astensionismo sia nel confronto con le europee (+27%), sia con le politiche (affluenza praticamente identica) sia con le comunali (-9%). Mentre Milano che è in effetti il capoluogo che ha un po’ contenuto il disastro, soprattutto nel confronto con le elezioni più recenti, è invece la città dove l’affluenza è andata peggio (-5,35 di affluenza rispetto alle europee, peggio solo Bologna; -22,7% rispetto alle politiche e -12,9 rispetto alle comunali). Il che significa che la fuga degli elettori dal Pd renziano è abbastanza omogenea sia nel confronto temporale (le differenti elezioni) che spaziale (le sette città sono ben distribuite nella penisola) ed è anche discretamente indifferente all’affluenza al voto.
Ma dove sono andati questi elettori del Pd? Il Centro italiano di studi elettorali del professor D’Alimonte (il politologo che ha «inventato» l’Italicum) ha proposto ieri una prima analisi dei flussi. Limitata a Torino ma comunque molto interessante. Si calcola infatti che su cento elettori di Fassino nel 2011, solo 42 siano tornati a votarlo, mentre 32 hanno scelto la candidata del Movimento 5 Stelle e 14 si sono astenuti. L’elemento che fa parlare il Cise di mutazione genetica della base elettorale del candidato Pd (che nel complesso delle liste che lo sostengono ha perso quasi centomila voti) è che Fassino sembra aver ricevuto l’appoggio della maggioranza relativa degli elettori che cinque anni fa votarono per il centrodestra, quasi tutti in fuga da quello schieramento. Il 34% di loro è passato sotto le insegne del candidato Pd.