il manifesto 6.6.16
Non più vecchia Europa ma Europa vecchia
Immigrazione.
L’abbandono progressivo del welfare basato sullo sfruttamento del Terzo
mondo, e i mutamenti dei paesi emergenti, chiedono alla Ue una nuova
visione della cooperazione internazionale
di Tonino Perna
Sapere
invecchiare è un’arte. Significa fare i conti con le energie che
vengono meno, con la paura del giorno finale, con il rimpianto per “i
bei giorni che furono”, come nella nota commedia di Samuel Beckett. Come
diceva Noberto Bobbio il brutto della vecchiaia non è solo la memoria
che si perde, ma che tutto diventa più lento e faticoso.
L‘Europa è
diventata come una vecchia signora che vive di paure, si fa prendere
facilmente dal panico, cerca di esorcizzare la morte che si avvicina
imbellettandosi con lustrini di eventi spettacolari, grandi opere e
Quantitative easing. Assomiglia, perdonate il riferimento personale, ad
una mia vecchia zia che viveva all’Eur, splendida persona, femminista
ante litteram, che dagli anni ’90 ho visto rinchiudersi sempre più in
casa, mettere sbarre alle finestre, porte blindate, e vivere nel terrore
degli immigrati e dei rom.
«L’Unione europea- ha detto Laura
Boldrini durante la manifestazione dell’8 maggio ’No ai muri, sì
all’Europa dei diritti’ – oggi è come una macchina d’epoca, bella e
gloriosa, il cui motore però procede ormai a singhiozzo.
Quest’automobile, questo motore, sono vecchi, sono antichi e vanno
dunque sostituiti con un modello nuovo, sostenibile, più competitivo, in
grado di portarci lontano e suscitare la passione delle nuove
generazioni». Ha replicato subito il superleghista Calderoli,
responsabile morale dell’eccidio avvenuto in Libia alcuni anni fa: «Più
che d’epoca la Ue è un’auto da rottamare».
A nostro modesto
avviso, più che di un nuovo motore l’Ue ha bisogno di un trapianto di
cuore. Di un cuore umano, e non di “un cuore di cane” come nel romanzo
di Bulgakov, l’autore del capolavoro Il maestro e Margherita. Deve
soprattutto accettare di aver perso il ruolo di potenza economica di
prima grandezza per assumere un ruolo nuovo: quello di un centro che
promuove la pace, la sostenibilità ambientale, la cultura e le arti,
un’Altreconomia capace di rispondere ai mutamenti tecnologici, di
redistribuire il lavoro, la ricchezza, le opportunità, la qualità della
vita.
Per assumere questo nuovo ruolo sulla scena mondiale l’Ue
non può chiudersi in sé stessa. Questo è stato il primo motivo per cui è
stato ridimensionato il welfare nel Nord Europa, ancor prima della
crisi del 2008. E’ stato il peccato mortale della socialdemocrazia, come
ha spiegato più volte Bruno Amoroso, l’aver pensato di costruire un
welfare State basato sul surplus drenato dai paesi del sud del mondo,
attraverso lo scambio ineguale che ha caratterizzato, e in parte
continua a segnare, i rapporti Nord/Sud.
Un modello che non ha
retto all’arrivo dei popoli del Sud del mondo che chiedevano di
partecipare al lauto banchetto, godere dei diritti civili e sociali
negati nei loro paesi. Ma, il modello socialdemocratico era stato
pensato per quel ridotto numero di abitanti, con una cultura calvinista
del lavoro, con il senso weberiano del Beruf, della missione che con il
lavoro si persegue su questa terra. Ma quel modello sociale ha fatto
sorgere, proprio tra le fasce popolari beneficiare del welfare, quel
razzismo rabbioso di stampo neonazista che abbiamo imparato a conoscere
negli ultimi anni.
Sapere invecchiare significa fare i conti col
proprio passato, senza infingimenti, guardando alla storia, alle proprie
responsabilità, con onestà intellettuale. E l’Europa nei primi decenni
dopo la seconda guerra mondiale l’ha fatto. Negli anni ’60 e ’70 una
marea di pubblicazioni, film, opere d’arte, ci facevano prendere
coscienza dello sfruttamento delle risorse del Terzo Mondo, del ruolo
nefasto del colonialismo europeo, delle sue atrocità e del debito con
questi popoli. E’ con questa coscienza che è nata la cooperazione
popolare, delle Ong, negli anni ’80 del secolo scorso, sostenuta
finanziariamente dagli Stati europei e da una cultura terzomondista
diffusa anche nel mondo della scuola, tra i testi scolastici riscritti
sotto questa luce.
Poi, lentamente, sono emersi gli intellettuali
della nuova destra teocon, spesso mascherati dal linguaggio e sapere
“scientifico”, per denunciare il malgoverno di questi paesi, a partire
da quelli africani, e ridare valore e dignità alla colonizzazione che,
secondo questa tesi, avrebbe portato progresso e civiltà.
Cominciò
a diffondersi la parola d’ordine, anche in una parte della sinistra:
basta col senso di colpa occidentale. Secondo questo approccio, la
ricchezza, gli europei, ed in generale l’uomo bianco, se la sono
conquistata con sacrifici, abilità ed intelligenza, mentre in questi
paesi del Terzo Mondo domina l’indolenza, il malaffare, e la classe
politica corrotta fa rimpiangere il dominio dei coloni occidentali.
Lentamente
questa visione è diventata luogo comune diffuso, paradossalmente
intrecciandosi con una risposta alla globalizzazione economica che
vedeva nel “locale” la possibile via d’uscita dall’omologazione
culturale e dalla distruzione ambientale. Il localismo con tutti i suoi
derivati (slow food, acquisti a km zero, autoproduzioni, ecc.) è stato
ed è certamente un fatto positivo se non degenera, come sta avvenendo da
un po’ di tempo, in indifferenza per quello che accade all’esterno del
tuo giardino.
Si spiega così la caduta di interesse registrata
negli ultimi dieci anni per il commercio equo e solidale, per i progetti
delle Ong, per le pubblicazioni che riguardano i paesi e le aree più
impoverite, per quelle disastrate dalle nostre guerre, per quelle che
subiscono i danni ambientali del nostro modello di sviluppo imposto.
C’è
da dire che la realtà geo-economica del mondo si è profondamente
modificata. Fino agli anni ’80 del secolo scorso lo scarto Nord/Sud era
evidente ed evidenziato nel famoso refrain: il Nord consuma l’80 per
cento delle risorse del pianeta con il solo 20 per cento di popolazione.
Oggi,
le cose non stanno più esattamente così. La Cina è diventata il primo
paese industriale al mondo e altre nuove potenze economiche sono emerse
(India, Brasile,ecc.) e fanno concorrenza ai nostri prodotti
industriali, facendo chiudere molte nostre imprese, magari dopo aver
delocalizzato le produzioni in questi paesi, o in altri dell’est e sud
del mondo. C’è ancora lo scarto tra paesi ricchi e poveri nella
distribuzione del reddito, ma è molto più evidente e marcato quello
all’interno di ciascun paese dove le diseguaglianze sociali sono
cresciute spaventosamente.
E’ in questo nuovo scenario mondiale
che va inquadrata oggi la questione dei nuovi flussi migratori a cui
questa Europa bisbetica non sa rispondere. Se invece l’Ue imparasse a
fare i conti con la realtà, a prendere atto che esistono processi
strutturali ed irreversibili nel corso della storia umana, allora
potrebbe usare tutte le sue risorse materiali ed intellettuali per dare
delle risposte al presente, pensando al futuro. In due modi. Il primo
passa per un progetto di accoglienza che non può essere solo una
assistenza pubblica, sia pure dignitosa.
Come ho già proposto
insieme ad altri in passato credo che, anche utilizzando i fondi Ue per
l’agricoltura che sono ancora cospicui, si possa pensare ad un
inserimento di migranti e indigeni nelle aree interne, nelle zone
marginali dell’Europa mediterranea e non.
Per l’Italia (ma anche
per la Grecia, il Portogallo del nord ed il centro-sud della Spagna)
bisognerebbe pensare ad una vera Riforma Agraria con la confisca delle
terre abbandonate o incolte e l’inserimento di giovani europei e
migranti in progetti mirati alla rinascita di queste terre. Non servono
solo contadini per far rinascere queste aree interne e paesi
abbandonati, ma anche artigiani, artisti, piccoli commercianti,
professionisti, ecc.
La seconda modalità passa necessariamente per
un rilancio della cooperazione popolare, che coinvolga le associazioni ,
le Ong e gli enti locali (come Recosol che da diversi anni implementa
progetti autosostenibili in diversi paesi africani e latino-americani).
Non
si tratta solo di far ripartire la parte migliore della cooperazione
internazionale. Abbiamo bisogno di un impegno ben più rilevante e
incisivo.
Dobbiamo fare uno sforzo di immaginazione e pensare che
ogni Stato della Ue possa stringere un Patto di amicizia e
responsabilità con uno o più paesi africani (o latinoamericani) che
riguarda non solo gli aspetti economici, ma anche culturali, e metta in
moto un meccanismo virtuoso che coinvolga da noi e nei paesi terzi una
conoscenza reciproca (scuole ed Università), una integrazione economica
vantaggiosa per entrambi (con il con il coinvolgimento della piccola e
media impresa), una Alleanza per i Beni Comuni che coinvolga gli enti
locali di entrambi i paesi e li impegni in questa direzione.
Sarebbe
bello ed entusiasmante immaginare una gara tra paesi europei tra chi
avrà operato meglio nell’innalzare il livello e la qualità della vita in
questi paesi, nel produrre una vera integrazione dei migranti in
Europa, nel realizzare progetti di lungo periodo di grande utilità
sociale.
Una competizione qualitativa e solidale che è l’alternativa alla concorrenza distruttiva del capitalismo reale.