il manifesto 6.6.16
Sarà una Cina «conflittuale»
Pun
Ngai, docente presso l’Hong Kong Polytechnic University, si occupa dei
lavoratori migranti impegnati nell’industria e nelle costruzioni: sono
loro i principali protagonisti di scioperi e proteste. «Non è ancora
tempo per dire addio alla lotta di classe»
intervista di Giorgio Grappi e Devi Sacchetto
Nel
corso degli ultimi anni lo sviluppo economico cinese pare aver
imboccato una nuova strada, con delocalizzazioni verso l’interno del
paese e all’estero, mentre alcuni commentatori hanno sottolineato
l’emergere di un’ampia classe media. Tuttavia, i conflitti che
attraversano il paese hanno raggiunto un nuovo picco all’inizio del
2016. Il numero di lavoratori migranti interni che si spostano verso le
città continua a crescere e ha superato il 20% della popolazione, circa
270-280 milioni: impegnati soprattutto nell’industria e nelle
costruzioni, sono loro i principali protagonisti di centinaia di
scioperi e proteste che, per ora, raramente superano il livello della
singola azienda e sono variamente contenute da un poderoso apparato di
sicurezza.
Proprio intorno a queste questioni iniziamo la nostra
intervista con Pun Ngai, docente presso l’Hong Kong Polytechnic
University e in Italia per una serie di incontri a Roma (6 giugno),
Bologna (7 giugno) e Padova (8 giugno).
Pun Ngai ha pubblicato
vari saggi sulle trasformazioni lavorative e sulle migrazioni in Cina,
come il recente Migrant Labor in China: Post-Socialist Transformations
(Polity Press). Tra le sue opere tradotte in Italia: Cina, la società
armoniosa (Jaca Book 2012), Morire per un iPhone (Jaca Book 2015) e La
fabbrica globale (Ombre Corte 2015).
In questi anni diversi
istituti di ricerca hanno riscontrato un nuovo picco della
conflittualità operaia in Cina. Dal suo punto di vista, che cosa
caratterizza la situazione attuale nelle fabbriche e, più in generale,
nel mondo del lavoro in Cina?
L’elemento che più caratterizza
questa fase è la radicalizzazione della diseguaglianza sociale. Mentre
ci sono i nuovi ricchi nella lista dei top 500 di Fortune, si assiste
alla crescita di una nuova classe operaia composta di oltre 500 milioni
di lavoratori urbani e di contadini-operai: la più numerosa al mondo.
Con il rallentamento dello sviluppo economico e la sovrapproduzione, i
conflitti cresceranno.
Qualche anno fa («il manifesto», 13
dicembre 2012) parlammo della crescita di una nuova generazione di
operai, migranti e precari, in una situazione di stallo tra nessun
avanzamento sociale e nessuna possibilità di ritirata. Che cosa è
cambiato da allora?
Non c’è stato nessun cambiamento, a parte il
fatto che il problema è diventato più serio. Dopo il 2012 e 2013, la
crescita dei salari nelle zone industriali della Cina costiera ha subito
un rallentamento, ma il costo della vita, in particolare degli affitti,
continua a salire nelle aree urbane. Molti lavoratori migranti fanno
fatica a stabilirsi nelle città con le loro famiglie, il che produce il
fenomeno delle famiglie divise e dei bambini che rimangono nelle zone
rurali.
In Cina non ci sono gli slum nelle aree industriali,
semplicemente perché il regime dei dormitori è un loro valido sostituto,
ma allo stesso tempo il regime della fabbrica-dormitorio occulta i
bisogni di riproduzione sociale e rende possibile la circolazione dei
migranti tra diversi stabilimenti e tra le città, privandoli della vita
famigliare o di comunità. I migranti che vorrebbero tornare nelle loro
città di origine scoprono che i loro piccoli appezzamenti sono stati
requisiti dal governo locale per scopi industriali o commerciali, oppure
che il mercato dei prodotti agricoli è sempre più dominato dalle
importazioni di prodotti statunitensi quali i semi e i fertilizzanti. La
terra agricola non è più quindi un mezzo di sostentamento per questi
migranti di ritorno. Un tale dilemma non può essere sciolto senza un
cambiamento strutturale.
Lei ha studiato la Foxconn per molti anni. Come definirebbe la situazione oggi?
Il
calo dei profitti di Apple e la saturazione del mercato con iPad e
iPhone ha dei contraccolpi ovvi per la Foxconn. Il numero dei suoi
dipendenti in Cina è calato da 1,3 milioni a meno di un milione. Il
paradosso è che oggi gli operai della Foxconn non svolgono abbastanza
lavoro straordinario, e il loro salario è così diminuito del 15 o 20%
rispetto agli anni scorsi. Siccome il salario di base per una giornata
di lavoro di otto ore è troppo basso, gli operai migranti cinesi
dipendono dagli straordinari.
Nei suoi saggi, ha recentemente
sostenuto l’idea che sia necessario tornare al concetto di classe.
Perché pensa che possa essere utile per la comprensione di questi
fenomeni?
Parlo di classe perché è il concetto basilare per
comprendere i rapidi cambiamenti che coinvolgono il mondo neoliberale.
L’«addio alla classe» è un discorso egemonico occidentale, che sostiene
lo sviluppo del capitale multinazionale. È un discorso che maschera la
lotta in corso nelle società del Terzo mondo, dove gli agenti del
cambiamento storico rimangono gli operai e i contadini che vengono
sfruttati dal capitale globale e sono privi del sostegno delle
amministrazioni locali. Quello di classe è un concetto di base per
comprendere non soltanto la composizione e la stratificazione della
società, ma anche il potere potenziale degli agenti che storicamente
hanno cercato di cambiarla.
Dalla Cina giungono notizie
dell’introduzione su larga scala dei robot nelle imprese multinazionali.
Lei crede che questo processo possa modificare i rapporti di potere
dentro le stesse fabbriche?
Sì, un modo per il capitale per
risolvere il problema della sovrapproduzione è aggiornare le manifatture
e creare nuovi mercati per nuovi prodotti. Molte industrie oggi
producono robot poi utilizzati in differenti settori: si va
dall’automobilistico all’elettronico fino ad altre produzioni con un
alto valore aggiunto. Una sostituzione di manodopera con robot potrà
avere un grande impatto nella relazione capitale-lavoro, e modificare il
rapporto di potere nelle fabbriche. Se la sopravvivenza della nuova
classe operaia cinese venisse minacciata, sarà anche probabile la
nascita di un movimento luddista cinese.
Molti attori economici
vedono oggi nella Cina una possibilità di spingere la crescita e gli
investimenti. Discorsi come quello sulla nuova via della seta sono
utilizzati, anche in Europa, per immaginare possibilità di sviluppo, ma
sappiamo poco, in realtà, di cosa stia succedendo nel paese asiatico.
Cosa ne pensa?
Il capitale cinese che «va fuori» è costretto dalle
logiche dell’economia neoliberale: difficilmente potrà generare un
mondo migliore. Molti ricercatori cinesi direbbero che gli investimenti
cinesi all’estero sono migliori di quelli statunitensi in termini di
benefici per le società locali. Per me è solo una questione di
gradazione. La sovrapproduzione in Cina, soprattutto nelle industrie
pesanti come l’acciaio, ha reso necessario per i capitali andare
all’estero per cercare nuove possibilità d’investimento. Questo non è
certo un nuovo internazionalismo.
Qual è l’impatto di questi processi nell’opinione pubblica cinese?
La
gran parte delle élite e dei membri della classe media sono favorevoli a
queste trasformazioni. Essi pensano che dopo il lungo periodo di
povertà, la Cina si sia alzata in piedi. Queste élite propongono un
«sogno cinese» per sfidare il «sogno americano». La maggior parte della
classe operaia non ha alcuna possibilità di condividere il «sogno
cinese», ma il 10% della classe media o superiore è fiera del fatto che
la Cina sia diventata un paese importante.
Una versione più lunga dell’intervista uscirà su www.connessioniprecarie.org