il manifesto 6.6.16
«Donald, raccontaci quella del muro»
Fenomenologia
di Trump. Mentre il Gop si sfascia, per «il popolo» di Trump
l’ortodossia ideologica è l’ultima delle considerazioni. Nel miliardario
«ribelle» c’è un paladino. Lo dimostra l’entusiasmo con cui lo saluta
sventolando bandiere, cappelli da cowboy e chiedendo a gran voce le
«gag» consolidate
di Luca Celada
LOS ANGELES
Elland Arena, fine maggio. Migliaia di persone hanno fatto la fila sin
dalle prime ore del mattino per ascoltare il proprio beniamino. Quando
infine sale sul palco la folla esplode in un boato.
Solo il giorno
prima Donald Trump ha messo al sicuro la nomination raggiungendo la
soglia dei fatidici 1.237 delegati che lo sosteranno nella convention di
luglio a Cleveland.
C’è dunque un pizzico di soddisfazione in più
nel sorriso tronfio stampato in faccia all’uomo che si concede il bagno
di folla in questo hinterland agricolo. La sua vittoria per forfait
(degli altri pretendenti repubblicani che un tempo furono addirittura
16) ha aperto un interim singolare nel processo elettorale già senza
precedenti di quest’anno.
Dopo essersi insinuato come un corpo
estraneo ed aver espugnato il partito tradizionale della destra
conservatrice, l’uomo che dal palco saluta i suoi sostenitori in
visibilio all’interno del palazzetto dello sport, avrebbe
ragionevolmente dovuto cominciare a ricompattare le fila e riconciliarsi
con quell’establishment che prima lo ha strenuamente combattuto ed ora
fa le contorsioni per razionalizzare la sua candidatura. Trump invece
non da cenno di essere «addomesticato».
Rimasto senza avversari
ufficiali sembra impegnato in una campagna personale e trasversale in
cui gli attacchi a Hillary Clinton si mescolano a bordate contro i
giornalisti che lo interrogano e la derisione di membri del suo stesso
partito: il sindaco di San Diego, la governatrice del New Mexico:
chiunque egli ritenga non gli abbia mostrato sufficiente rispetto o
«endorsement». Ma come è stato sin dall’inizio ogni diverbio con
l’istituzione non sembra che giovare al rapporto col suo «popolo».
Mentre
gli ideologhi di partito di stracciano le vesti, per la base
l’ortodossia ideologica è l’ultima delle considerazioni. L’importante è
che nel miliardario «ribelle» abbiano infine trovato un paladino che
parla la loro vera lingua.
Lo dimostra l’entusiasmo con cui lo
saluta sventolando bandiere, cartelli e cappelli da cowboy. «Poco fa
parlavo con un gruppo di agricoltori, grandi agricoltori, e mi dicevano
‘non si capisce, non ci si capisce nulla’ e poi parlavo con una altro
amico mio che ha una fattoria qui in California e anche loro non hanno
acqua, è pazzesco! E io gli faccio: ‘cos’è – la siccità?’ e loro:
‘macché, di acqua ce n’è un sacco’, e io: ‘e qual’è il problema allora?’
e loro: ‘è che la buttano tutta in mare’ e io: ‘perché?’ e pare che
nessuno lo sappia – nemmeno gli ambientalisti che pensano a proteggere
dei pesciolini di 5 cm…Pensateci. Nessuno sa perché. (E a proposito io
ho vinto un sacco di premi per l’ambiente, no, davvero, premi e
ricompense. Me la sono cavata davvero bene con l’ambiente io.
Sono
il primo a difendere l’ambiente) ma c’è sempre qualcuno che vuol
mettersi di mezzo, forse è per il loro ego, non lo so…c’è sempre un
sacco di cose..e lo sapete, noi vogliamo posti di lavoro e se portiamo
l’acqua in questa parte del mondo che abbiamo, ce l’abbiamo! Ma è
proprio così mi hanno dato così tanti premi in questo settore e sono
così fiero…e ci sono in sacco di bravi ambientalisti grande gente
ambientale (sic, ndr) davvero…il mio standard ambientale è molto
semplice e l’ho detto un sacco di volte: voglio aria pulita e acqua
pulita, basta – molto, molto semplice. Ma ad ogni modo, torneremo qui e
apriremo i rubinetti così gli agricoltori sopravviveranno e il mercato
del lavoro migliorerà….»
Poco dopo aggiungerà: «Quelli vi dicono
di essere d’accordo con voi, ma appena vi girate, dicono lo stesso agli
ambientalisti, ve lo garantisco io che li conosco bene».
Il
passaggio è emblematico per come ignora bellamente i fatti ma stabilisce
una complicità con il suo pubblico. Lui, miliardario di straordinario
successo e ricchezza, come non cessa di rammentare, è però anche «uno di
voi», un sodale delle platee perlopiù proletarie a cui rivela le
perfidia segreta della casta smascherandone gli ipocriti sofismi.
Quella
dell’acqua in California, nella fattispecie, è una problematica storica
assurta di recente ad emergenza ambientale con cui si sono cimentate
generazioni di politici – un nodo gordiano che Trump trancia di netto.
Il
«negazionismo ambientale» è prassi conservatrice ma l’insinuazione che
la micidiale siccità che sta martoriando la regione sia in qualche modo
manovrata è una vera enormità; nel pubblico di Trump provoca scrosci di
applausi e i soliti cori di U-S-A, U-S-A!
In questa variante della
sua auto-agiografia Trump diventa «portatore dell’acqua» nella
California riarsa e benevolo bonificatore del paniere inaridito. Come se
questa regione, la Central Valley, non fosse stata oggetto di una delle
irrigazioni più intensive al mondo, una mastodontica bonifica che ha
dirottato fiumi, plasmato un secolo di agricoltura industriale e in gran
parte provocato gli odierni scompensi idrici e ambientali. È storia
acquisita in questa valle, eppure si scioglie come d’incanto dinnanzi
alle parole del demiurgo Trump osannato dalla folla che sventola gli
Stetson e i cartelli «Farmers for Trump».
Trump ha scoperchiato le
oceaniche riserve di anti intellettualismo, fonte inesauribile e
rinnovabile dell’animus «middle-americano» contro le élites e quindi
anche contro quei «gufi» di scienziati. I suoi comizi sono la
celebrazione rituale di questa congenita diffidenza, e allo stesso tempo
del proprio smisurato successo che lo legittima berlusconianamente come
vincitore-capo, unico leader qualificato a guidare la nazione. E ogni
discorso comprende quindi una narrazione della propria tautologica
infallibilità dato che nothing succeeds like success.
«….Abbiamo
vinto con dei margini pazzeschi e li abbiamo messi ko, e a proposito
avete notato che dicevamo che non ci sarei riuscito prima di luglio… e
alcuni di questi commentatori, la gente più disonesta al mondo».
Accorrono a sentirlo e Trump offre la catarsi momentanea e la
liberazione dalla «correttezza politica» a cui sono stati costretti
dalla cultura imperante: «…Ho vinto con gli uomini e ho vinto con le
donne, sapete con gli uomini sto rompendo ogni record ai seggi (urla
indistinte dal pubblico )…cosa? Anch’io vi voglio bene..stanno urlando
‘le donne ti amano’ beh anch’io amo le donne…..altroché se amo le donne
credetemi, aaaamoo le donne – aaaamo le donne e sapete che altro? Ho un
sacco di rispetto per le donne, un monte di rispetto, credetemi …insomma
ho vinto con gli uomini e ho vinto con le donne, ora coi maschi faccio
record per questo sono in testa, faccio record di uomini, nessuno ha mai
visto numeri del genere – agli uomini piace Trump… io preferirei
vincere con le donne. Al diavolo gli uomini! Che mi frega di loro –
datemi le donne!»
Oltre alla misoginia da osteria, il dato
saliente del siparietto è l’ammiccamento al pubblico. Trump il guascone è
il «veicolatore» di una schiettezza pecoreccia e liberatoria. Come
Putin, come Berlusconi (e le ultime aberrazioni della stirpe: Duterte!),
è uno strongman, il maschio forte che strizza l’occhiolino al suo
pubblico che fa apposta a disobbedire al galateo ipocrita e stolto dei
timidi: «…Posso dirlo..? Lo dico? Avevo promesso che non lo avrei più
fatto che sembra non stia bene dirlo di una donna…. e va bene: ‘Crooked
Hillary ha una voce insopportabile strilla sempre da far venire il mal
di testa».
La scenetta manda in visibilio il pubblico – uomini e
donne – che esultano per la trasgressione del capo, che a sua volta
concede il bis: «Vi ricordate Ted Cruz? Com’è che lo chiamavo?….No non
lo voglio dire che adesso che ho vinto ho promesso che facevo il bravo
così unifichiamo il partito…vabbè…:’Lying’ Ted – Ted il Bugiardo, no, no
non lo voglio dire, non lo dirò: Ted il Bugiardo…»
Giù altri
applausi. Il pubblico conosce a memoria il canovaccio, invoca le battute
più famose («dicci il muro!») e gode del botta e risposta. È quasi una
rappresentazione rituale che come nel teatro popolare contiene caratteri
stereotipati, gestualità esagerata, smorfie, improvvisazione e
buffonerie. I suoi comizi hanno contorno di sbandieratori, reduci
mutilati, hell’s angels e marjorettes minorenni…un compendio di kitsch
americanista ai minimi termini su cui lui presiede come un maestro di
cerimonie. È un ethos che Trump brandisce intenzionalmente («abbiamo
vinto con i non istruiti, amo i non istruiti…» aveva esultato dopo la
prima primaria vinta in New Hampshire).
E il leader si bea della
retorica semplificata che impiega – è l’anti Obama per eccellenza,
l’opposto del presidente eloquente, laureato ad Harvard – un timido
secchione se non peggio: un «professore» come lo chiamano con disprezzo
le radio di destra.
Comunque un «primo della classe» – il peggiore
degli epiteti per le platee di Trump che ad occhio e croce non hanno
mai avuto grande dimestichezza coi banchi della prima fila. Nessuno
prima ha incarnato meglio la paura e il delirio anti intellettuale così
indelebilmente americano. L’antecedente più diretto è forse proprio
Ronald Reagan anch’egli fautore di un linguaggio impoverito (prima
fortemente osteggiato dall’establishment repubblicano poi fautore di un
ribaltamento populista al suo interno).
Nella locuzione reaganiana
non contavano fatti e cifre (il suo decalogo prevedeva anzi di starne
appositamente alla larga in dibattiti e comizi perché «in una campagna
politica è sufficiente indicare di una direzione»). Pressato su
dettagli, programmi di governo, Trump insiste: «non vi preoccupate,
prenderemo le menti migliori, risolveremo il problema».
Trump
getta nella mischia alcuni slogan di destra in ordine sparso ma come
Reagan non è un conservatore ortodosso. Promette di tagliare all’osso le
tasse ma poi garantisce che salverà la sicurezza sociale. Assicura un
esercito potente come mai nella storia ma aggiunge che gli Usa non
pagheranno più per la sicurezza degli alleati. Ha ammesso l’utilità dei
consultori femminili di Planned Parenthood e dell’istruzione pubblica
inimicandosi per sempre i talebani del Tea Party e dello stato
minimo….oltre ai falchi neocon.
In questa mescolanza di nozioni
alla rinfusa, il dato fisso è un eccezionalismo rudimentale che
galvanizza queste retrovie piene di pistole e di bandiere, una nazione
orfana di miti rottamati, tartassata dalla globalizzazione e dalla
finanza che da grattacieli lontani gli ha venduto mutui carta straccia. A
questo paese si rivolge Trump, col suo linguaggio intriso di violenze
primordiali, promettendo una improbabile riscossa, di renderla
nuovamente eccezionale: make America great again.
Come gli
incontri di wrestling che non a caso fanno parte del suo curriculum
televisivo, i comizi sono sceneggiate manichee fra buoni e cattivi,
narrative semplificate che contrappongono l’America virtuosa ai nemici
di turno, (gli stranieri, i musulmani, i politici…) ma sempre con lo
stesso campione.
Trump incita, aizza e imbonisce il suo pubblico
col suo repertorio. Come quello immancabile del muro – totem
dell’involuzione trumpiana d’America.
La mitologica barriera
anti-Messicani sul confine viene citata a più riprese anche a Fresno
scatenando ogni volta scrosci di applausi e tifo da stadio. Come tutte
le greatest hits è proprio questa anche la battuta del bis.
Prima
di salutare Trump getta un ultimo brandello di carne viva ai sostenitori
famelici: «Il muro, certo che lo costruiremo, non ci pensate nemmeno un
attimo, è come fosse già costruito…lo costruisco. E a chi lo faccio
pagare…?» «Al Messico», risponde come un sol uomo il pubblico che
sembra non aspettasse altro che questo momento per chiudere la
rappresentazione.