il manifesto 3.6.16
Un macigno sul Sultano Nato
Genocidio
degli armeni. In verità, la Turchia, oggi, non è più semplice «baluardo
orientale della Nato», ma anche centro nevralgico sia per frenare il
flusso dei migranti sia per incentivarlo, e, d’altro canto, luogo di
alimentazione del terrorismo islamista, e nel contempo, centro di
organizzazione del contrasto ad esso
di Angelo d'Orsi
Il
passato che non passa, torna regolarmente agli onori (o ai disonori)
della cronaca. Le scuse o le mancate scuse per i crimini commessi da una
nazione ai danni di un’altra (Obama recentemente a Hiroshima per la
prima tragica atomica Usa); l’incommensurabile orrore della Shoà, che ci
viene ricordato, in ogni modo, quotidianamente; i massacri, le
annessioni di territori con la violenza, i misfatti delle potenze
coloniali, sono altrettanti capitoli della storia del mondo, davanti ai
quali la tentazione è sovente quella giustificazionista (tutti gli Stati
sono nati dalla violenza, per esempio), o liquidatoria (ne abbiamo
parlato abbastanza).
Oppure, sull’altro fronte, si affaccia la
tendenza etico-giurisdizionalistica: condanne di tribunali
internazionali (spesso dalla dubbia legittimità, come quello sui crimini
della ex Jugoslavia) o di parlamenti nazionali. No, il passato non
passa, a meno che non intervenga la storia, come scienza dei fatti
accaduti, documentati, a mettere le cose a posto. E la storia ha
acclarato, ad esempio, senza alcun ragionevole dubbio, che i campi di
sterminio nazisti sono esistiti.
Fra i grandi crimini del
Novecento, a dispetto del silenzio dei governi e della società turca, vi
è il massacro degli Armeni, avvenuto nel 1915-16, quando l’Europa si
dilaniava nel primo conflitto continentale. Quanti furono i morti? Un
milione? Un milione duecentomila? Un milione e mezzo? Certo fu un
crimine sistematico, organizzato scientemente, anche se non eseguito in
modo «industriale» come nelle «docce» e nei forni di Auschwitz. Molti
morirono di stenti in marce forzate, di cui ci sono agghiaccianti
testimonianze fotografiche. Altri furono passati per le armi nelle loro
case, altri impiccati o fucilati un po’ dovunque, in carceri, per
strada, in luoghi di deportazione, ammesso che vi arrivassero ancora
vivi. Va ricordato che fra i massacratori vi furono anche milizie kurde,
ossia espressione di un popolo a cui proprio la Turchia, innanzi tutto,
ha negato nazionalità, sottoponendolo a una persecuzione infinita.
Quel
massacro, avvenuto con la collaborazione delle autorità del Reich
Guglielmino, allora alleato dell’Impero Ottomano (nella cui traiettoria
si staglia quella turpe vicenda, in un processo guidato dai cosiddetti
«Giovani Turchi»), non ha ricevuto finora i riconoscimenti che gli
spettavano.
Fra i primi Stati a riconoscere che di genocidio si è
trattato, è stata la Francia, e spesso per le vie di Parigi si assiste a
raduni, manifestazioni, capannelli di armeni (un film recente, assai
bello, Mandarines, di Zaza Urushadze) evoca gli strascichi attuali di
quella vicenda, nella triste guerra del Nagorno-Karabak). Papa
Francesco, Obama, il parlamento di Vienna, richiamarono con varia
terminologia quell’evento, suscitando la reazione irritata del governo
turco, che rispose con il canonico richiamo dell’ambasciatore. Ora che è
il Bundestag tedesco a farlo, la reazione è stata ancora più dura, non
solo richiamando l’ambasciatore, ma minacciando conseguenze non
precisate.
In verità, la Turchia, oggi, non è più semplice
«baluardo orientale della Nato», ma anche centro nevralgico sia per
frenare il flusso dei migranti sia per incentivarlo, e, d’altro canto,
luogo di alimentazione del terrorismo islamista, e nel contempo, centro
di organizzazione del contrasto ad esso. Riceve denaro per bloccare i
migranti, che in realtà sfuggono e cercano altre vie per l’Europa; vuole
aderire all’Ue, ma non si sogna di ottemperare le regole minime
ripetute in modo sempre più stanco dai rappresentanti istituzionali
dell’Unione. Con l’arrivo al potere di Erdogan mentre si erode la
laicità dello Stato – quello costruito, con la violenza, da Ataturk – se
ne cancella ogni vestigia di democrazia: oggi raccontare la verità in
Turchia significa esporsi al rischio di finire la carriera di
giornalista, scrittore, blogger, fotoreporter in galera o peggio.
Erdogan spadroneggia, e si permette il lusso di svillaneggiare il papa,
di ridicolizzare l’Unione Europea a cui pure pretende di aderire, e
senza tanti complimenti chiude ogni voce critica.
E in nome del
quieto vivere, nella speranza che quel governo faccia il suo sporco
lavoro (contro i migranti), le diplomazie europee tacciono, o al più
balbettano. Il passato che non passa è però un macigno anche per le
robuste spalle del nuovo sultano di Ankara.