il manifesto 3.6.16
Gaza, il cemento-fantasma e la ricostruzione che non c’è
Gaza.
Come funziona la ricostruzione? L'Onu si è inventato un sistema
complesso, un fiume da cui partono tre torrenti. Ma è a secco: Israele
blocca da mesi i materiali edili. Solo 2mila case ricostruite su 19mila
di Chiara Cruciati
GAZA
Una donna guida tre capre dentro il perimetro dell’asilo. Prende un
pallet di legno, lo appoggia all’ingresso di una delle aule e la
trasforma in un piccolo recinto. Approfitta dello stop ai lavori per la
ricostruzione della scuola distrutta durante Margine Protettivo dalle
bombe israeliane: da settimane l’ingresso di cemento dentro la Striscia
di Gaza è bloccato dalle autorità israeliane, convinte che non arrivi ai
legittimi destinatari ma finisca nelle mani di Hamas per la
ricostruzione dei tunnel sotterranei. Come tanti altri progetti anche
questo, l’asilo di Umm al-Nasser, comunità a nord di Gaza, è fermo.
Sono
trascorsi quasi due anni dalla fine dell’operazione militare che
nell’estate del 2014 devastò come mai prima la Striscia di Gaza. In
mezzo la promessa mai mantenuta della comunità internazionale di donare
5,4 miliardi di dollari per la ricostruzione e un sistema di
distribuzione dei materiali edili che differenzia tra progetti
infrastrutturali di Qatar e Unrwa (agenzia Onu per i rifugiati
palestinesi), progetti delle organizzazioni non governative e
ricostruzione di abitazioni da parte di privati. Ideato dalle Nazioni
Unite e dall’inviato per il Medio Oriente Robert Serry, è stato
immaginato come un fiume da cui partono tre torrenti diversi. Ma il
fiume è quasi a secco.
I progetti di ricostruzione delle ong
internazionali per rimettere in piedi scuole, cliniche, pozzi, reti
idriche sono alimentati dal primo torrente e dal cosiddetto Grm (Gaza
reconstruction mechanism): «Il Grm è l’ente che gestisce l’ingresso di
materiali di ricostruzione a Gaza – spiega al manifesto Mitia Aranda,
architetto dell’ong italiana Vento di Terra, impegnata nella
ricostruzione dell’asilo di Umm al-Nasser – È formato da tre soggetti:
il Ministero degli Affari civili dell’Autorità Nazionale Palestinese, il
governo israeliano e l’Unops, agenzia Onu che monitora il materiale
introdotto».
«La procedura da seguire è la stessa per tutte le
organizzazioni: si presenta il progetto e si seleziona una compagnia
locale riconosciuta come legittima dallo Stato di Israele. Progetto
strutturale e architettonico e contratto con la ditta locale vengono
portati al Ministero di Gaza, con l’indicazione delle quantità e la
natura di materiale necessario ai lavori. A quel punto il progetto
viene iscritto nel Grm. La ditta locale chiede lo sblocco delle quantità
di materiali edili che saranno consegnati al distributore, anche questo
locale e anche questo approvato da Israele. Il cemento viene quindi
portato in cantiere e l’Unops ne monitora l’utilizzo».
Oggi di
operai nel cantiere di Umm al-Nasser non ce ne sono. Il cemento non
entra da settimane: la data prevista per l’inaugurazione dell’asilo
(entro inizio luglio, la fine del mese sacro di Ramadan) potrebbe
restare un miraggio.
Poco più a sud, nel campo profughi di Beach
camp, gli operai si muovono veloci nel cantiere della scuola dell’Unrwa:
a piano terra spostano i sacchi di cemento, al primo piano fissano le
reti di metallo a protezione delle finestre. Il 72% dell’edificio è
stato completato, si prevede di finire i lavori ad agosto, prima
dell’inizio dell’anno scolastico. L’ingegnere Abdul-Karim Barakat ci fa
visitare la scuola, un edificio di 42 classi a forma di U: «Oggi [19
aprile] abbiamo ricevuto una comunicazione dall’Access Coordination Unit
dell’Onu che ci ha assicurato l’ingresso del cemento. Per il resto
della Striscia l’accesso è stato bloccato, ma non per i progetti
infastrutturali di Nazioni Unite e Qatar, che proseguono».
La
ricostruzione è in stand by solo per le abitazioni civili e i progetti
delle ong, qui si continua a lavorare perché Onu e Qatar hanno accordi
bilaterali direttamente con Israele: il secondo torrente. Ma non mancano
gli ostacoli: «Siamo comunque in ritardo di due mesi – ci spiega
Barakat – a causa del lento afflusso dei materiali che Israele considera
a doppio uso, metalli, legno, acciaio. Ovvero materiali che Tel Aviv
reputa utilizzabili anche per la costruzione dei tunnel sotterranei. Per
questo dobbiamo chiedere un permesso speciale, che richiede tempo. Le
reti per le finestre, ad esempio, non arrivano da mesi». Per il resto il
sistema è apparentemente lo stesso del Grm: si presenta il progetto, si
indice la gara d’appalto e si indicano i materiali necessari. La
compagnia locale assunta dall’Unwra, obbligatoriamente registrata alla
Palestinian Union Contractors, gestisce poi i subappalti per le diverse
attività di costruzione, dalla falegnameria all’idraulica.
A monte
sta la linea diretta che dal 2010 collega le autorità israeliane
all’Unrwa e che permette l’accesso di materiali edili senza grossi
intoppi per i progetti infrastrutturali: «Il cemento non entra per la
ricostruzione delle abitazioni civili – ci spiega il vice direttore
dell’ufficio Unrwa della Striscia, David de Bold – perché Tel Aviv
ritiene ci sia una ‘perdita’ nel sistema di distribuzione. Questo
rallenta la ricostruzione delle case distrutte e danneggiate, seriamente
provata anche dalla mancanza di fondi: secondo la Banca mondiale del
denaro promesso dalla comunità internazionale è arrivato solo il 20%.
L’Unrwa aveva chiesto 700 milioni, ne abbiamo ricevuti 270. Con quel
denaro possiamo ricostruire 2mila case su un totale di 7mila di
proprietà di rifugiati. Ciò significa che dobbiamo investire fondi per
sostenere le famiglie sfollate: distribuiamo denaro alle famiglie
rifugiate per pagare l’affitto, per un totale di due milioni ogni mese.
Denaro che potrebbe essere usato per ridare loro una casa».
Case
fantasma e decine di migliaia di gazawi ancora schiacciati dal peso
dello sfollamento: ad oggi le unità residenziali ricostruite sono meno
di 2mila su un totale di 12.576 abitazioni totalmente distrutte e 6.455
gravemente danneggiate, quindi inabitabili. Fuori, oltre il muro che
assedia Gaza, c’è Israele che, dopo aver distrutto, oggi gestisce tempi e
modi della ricostruzione. Mettendo in piedi un ingente giro d’affari:
«Il 70% del costo di un edificio va per i materiali da costruzione – ci
spiega J. A., cooperante che segue da vicino il sistema della
ricostruzione – Dopo il golpe in Egitto il 2013, tutto il materiale
entra da Israele. Fate da soli il calcolo, quanto incassa Israele con il
business della guerra».
Sullo sfondo restano i privati, le
famiglie di Gaza, individuate dal Grm come beneficiarie ma che di
cemento ne vedono ben poco: è il terzo torrente, ma di acqua non ce n’è.
«Mentre l’Unrwa ha condotto un censimento sulle case dei rifugiati
demolite, il Ministero dei Lavori Pubblici di Gaza si è occupato delle
abitazioni dei non rifugiati. 9mila i primi, 3mila i secondi: un totale
di 12mila case. Cosa deve fare una famiglia per avere il cemento? Si
registra al Ministero e viene inserita in una delle liste dei donatori,
quella dell’Unrwa, quella del Qatar e quella del Kuwait, i due paesi che
hanno messo sul tavolo il denaro per la ricostruzione dei privati.
Entra quindi nel sistema del Grm, con la quantità di materiale
accordata. Alla famiglia viene comunicato l’arrivo dei materiali e il
distributore dove ritirarli. A monitorare il tutto è l’Unops che, con
telecamere in ogni compagnia di distribuzione, controlla le consegne ai
beneficiari».
Fuori dal sistema restano quelle famiglie che
vorrebbero ampliare la propria casa o costruirne una nuova, vista la
naturale crescita della popolazione. Hanno bisogno di cemento ma non
rientrano nel sistema Grm: «È qui che entra in gioco il mercato nero:
alcuni distributori bypassano i controlli e rivendono i materiali
destinati ai beneficiari a chi beneficario non è, a prezzi molto più
alti del previsto – continua J. A. – Se il Grm ha stabilito un prezzo di
520 shekel [120 euro circa] a sacco di cemento, ovvero 50 kg, sul
mercato nero viene rivenduto a 1.500-2000 shekel [350-470 euro]».
La
mancanza di cemento crea un gap, un vuoto dove le famiglie beneficarie
restano invischiate: in molti chiedono prestiti per iniziare a
ricostruire, aspettando di ricevere la donazione. Ma la donazione non
arriva e ci si ritrova indebitati con banche e privati e con una casa
ricostruita a metà. Chi può prova a fare economia del cemento che
riceve: «Se il Grm ti riconosce 100 tonnellate di cemento, la quantità
media per un’abitazione di 100 m², la famiglia ne usa di meno, risparmia
un 5-6% del totale per rivenderlo poi sul mercato nero».
A Gaza
il sentimento che prevale è la rassegnazione. Solo così, ci dicono,
possono spiegarsi i 30 casi di tentato suicidio e i 5 di suicidio da
gennaio, numeri impressionanti che raccontano la frustrazione di chi è
stato spogliato della propria dignità. Sharif Hamad vive a Beit Hanoun,
ha perso la sua casa (un palazzo di 8 appartamenti, dove vivevano 8
famiglie) e oggi vive in affitto. Da un anno è stato inserito nella
lista del Kuwait insieme ad altre 1.150 famiglie ma ad oggi non ha
ricevuto nemmeno un sacco di cemento: «Israele ha raggiunto il suo
obiettivo – ci dice – Dall’ultima operazione voleva ricavare una tregua
di 15-20 anni e l’avrà. Ci ha lasciato nel limbo della ricostruzione, o
meglio della non ricostruzione, impegnati a garantirci un tetto sulla
testa invece che a pensare ai nostri diritti di popolo sotto assedio.
Lavorano sulle frizioni interne alla società, tra chi riesce a costruire
e chi no, tra chi sfrutta il mercato nero per arricchirsi e chi è
ancora sfollato. E Israele fa affari: qui a Gaza un sacco di cemento è
venduto a 520 shekel, in Cisgiordania costa 380. Dove va la differenza?
In tasca a Tel Aviv».