il manifesto 2.6.16
Quella presenza, quasi un’assenza
Cosa
accade a una bambina di dieci anni, fino a quel giorno credutasi figlia
unica, quando, ascoltando una conversazione della madre, scopre di
essere nata due anni dopo la morte per difterite di una prima, altra
figlia?
di Fabiana Sargentini
Cosa accade a una
bambina di dieci anni, fino a quel giorno credutasi figlia unica,
quando, ascoltando una conversazione della madre, scopre di essere nata
due anni dopo la morte per difterite di una prima, altra figlia? Questa
in poche righe la trama del brevissimo romanzo «L’altra figlia» di Annie
Ernaux (L’orma editore). Nelle ottantuno paginette la scrittrice prova a
spiegare a se stessa, attraverso l’escamotage di un tu letterario
indirizzato alla sorella involata, come sia cambiata la percezione della
sua esistenza dal momento della scoperta.
Interrogativi,
fantasmi, elucubrazioni. Il confronto con un altro da sé inesistente,
senza caratteristiche tangibili, superato in età, altezza, conoscenza,
ma insuperabile in termini di amore e dolore luttuoso vissuto, al di là
di lei, dai suoi genitori. La narratrice non riesce ad usare neppure una
volta il noi, «i nostri genitori», perché non sente con la defunta
nessun tipo di condivisione, per via di una assenza manifestata sia in
termini di concretezza reale che verbalizzata attraverso spiegazioni
familiari mai arrivate, visto che in casa loro, tutta la vita, si è
professata la legge del silenzio.
Nel mio piccolo, vanto un
episodio similare. Nella grande casa dei miei nonni paterni, 1974/75,
invitata a pranzo assieme ai miei cugini, figli delle sorelle di mio
padre – due fanciulle più grandi e un maschietto coetaneo – nell’attesa
della convocazione a tavola, gironzolo per le stanze (nei miei ricordi)
scure, divani di pelle, mobilio di mogano bruno, in alto, sulle alte
pareti, ad uso galleria d’arte, una vasta quantità di tele incombono
sulla mia limitata altezza. Un quadro mi colpisce oltremodo: una strana
donna ospita sulla testa un pesce a pois rosa gialli e verdi su cui sono
appoggiati tre spicchi di luna orientale, uno sopra all’altro, a
formare una specie di barchetta dalla geometria desueta. Nell’insieme il
disegno non è realistico, la signora ha in una mano una coppetta e
nell’altra un pugnale. I colori sono accesi, vividi, il mio sguardo si
perde nei dettagli. Mi chiamano, è pronto. Passando, accanto al
pianoforte che mia nonna suonava con mani dolci venate di blu, della
stessa nuance dei suoi capelli sempre freschi di messa in piega da fata
turchina, intravedo delle foto-ricordo incorniciate che mi riprometto di
osservare meglio dopo quello che, già immagino, sarà un delizioso pasto
tradizionale italiano, pasta carne contorno dessert.
Dopo piccoli
interrogatori sul rendimento scolastico da parte del nonno, una mia
assoluta attenzione allo stare seduta composta e qualche «sì, grazie»,
finalmente posso tornare a guardare il piccolo altarino nello studio.
Tra le cornici mi cerco, invano. C’è mio cugino davanti a una torta di
compleanno, la nipote maggiore a cavallo, sua sorella minore che ride
prima di tuffarsi in piscina. Di me neanche l’ombra. Ce n’è un’ultima
sull’angolo della libreria, provo a girarla e sobbalzo. È effettivamente
una bambina pressoché mia coetanea, vestita col tutù da ballerina
classica (quanto avrei amato danzare) ma non sono io: per la prima volta
vedo in faccia la mia sorellastra che vive al nord, di cui so da sempre
l’esistenza, ma che non ho mai conosciuto.
Ricaccio il mio dolore
a pungermi dentro il cuore, torno nella stanza-galleria e sollevo gli
occhi al cielo. La giocoliera mi porterà via con lei, dove non esistono
mezze sorelle, mezze verità, nipoti di serie A e di serie B, ma solo
leggerezza, astrazione e libertà di vivere senza regole. (Scoprirò poi,
con gli anni, il titolo del quadro di Victor Brauner che mi fu
salvifico: «La bateleuse», 1947).