il manifesto 2.6.16
Accoglierli tutti non è un’utopia
Migranti.
L’Italia ha bisogno di immigrati quanto gli immigrati hanno bisogno
dell’Italia. A mostrarlo con inequivocabile evidenza sono le categorie
della demografia e dell’economia. Come del resto conferma lo stesso
presidente dell’Inps Tito Boeri
di Luigi Manconi, Valentina Brinis
E
se avesse ragione Monsignor Nunzio Galantino, Segretario della
Conferenza Episcopale Italiana? I progetti da lui tratteggiati
nell’intervista di ieri a Repubblica, rivelano una lungimiranza tale da
proporli come concretamente realizzabili. E poco importa se già gli
ostili gli attribuiscono la perversa intenzione di «accoglierli tutti», i
richiedenti asilo e i migranti economici.
D’altra parte
«Accogliamoli tutti» fu il titolo di una prima pagina del manifesto di
qualche tempo fa e di un nostro libro del 2013. Quest’ultimo recava un
sottotitolo («Una ragionevole proposta per salvare l’Italia, gli
italiani e gli immigrati») che motivava la possibile combinazione
virtuosa, in base a una sorta di «altruismo interessato», tra interessi
dei residenti e interessi dei nuovi arrivati.
Non vogliamo, certo,
attribuire ad altri, tanto meno al segretario della Cei, capacissimo di
parlare in prima persona e con argomenti ben torniti le nostre
convinzioni: così come non vogliamo ricavare da quanto appena detto da
Tito Boeri (che, fino a prova contraria, non è un volontario della
Caritas) prove scientifiche di ciò che noi riteniamo utile, e non
solamente giusto, per il nostro Paese. E, tuttavia, quando il presidente
dell’Inps dice che i contributi previdenziali versati dagli immigrati, e
di cui mai usufruiranno sottoforma di pensioni, rappresentano «quasi un
punto di Pil», offre un’indicazione preziosa.
In altre parole,
l’Italia ha bisogno di immigrati quanto gli immigrati hanno bisogno
dell’Italia: e sono le categorie della demografia e dell’economia a
mostrarlo con inequivocabile evidenza.
Questo significa, forse,
che l’impresa non sia terribilmente ardua? Nient’affatto. In estrema
sintesi, la convivenza è possibile, realizzabile, economicamente,
socialmente e culturalmente proficua e, tuttavia, assai faticosa e
spesso anche dolorosa. Gli ostacoli possono essere enormi, ma nessuno è
insormontabile.
E, soprattutto, il contrario di questa prospettiva
è una utopia regressiva e torva, quella che porterebbe non alla
Fortezza Europa – come si augurano i comici Amish padani (e chiediamo
scusa agli Amish veri) – bensì a una sorta di «cronicario Europa»,
senescente e sterile, autarchico e reclinato su sé stesso. Non solo.
Quel dato ricordato da Boeri ne richiama altri particolarmente
istruttivi: i circa 2 milioni e 400mila lavoratori stranieri regolari
producono oltre l’8,8% della ricchezza collettiva del nostro Paese. E si
pensi a un altro fattore demografico inesorabile: tra non molto tempo,
gli italiani della fascia di età oltre i 65 anni saranno 1 su 4. Con
quali conseguenze rispetto al fabbisogno di assistenza e cura (solo in
minima parte fornito da autoctoni), è facile da immaginare. Ed è solo un
esempio. Tutto ciò in uno scenario dove, nel corso del 2015, hanno sì
abbandonato il nostro Paese 91 mila cittadini italiani ma anche 48 mila
stranieri già regolarmente residenti.
Perché tutte queste cifre
che, se analizzate con attenzione dovrebbero ridimensionare
sensibilmente quell’immagine di «emergenza epocale» costantemente
evocata, non sono sufficienti a rassicurarci? Per tante ragioni, e per
una essenzialmente: perché la gestione, così spesso improvvisata e
sgangherata dei flussi migratori e, in particolare, degli sbarchi, con
l’immenso carico di sofferenza e di emozione che li accompagna,
accredita una percezione grottescamente alterata di minaccia e di
invasione.
Al contrario, e senza alcuna tentazione provocatoria e
tantomeno profetica, pensiamo proprio che «accoglierli tutti» (o quasi)
sia possibile. Certo, attraverso una politica comune europea, che resta
l’obiettivo più difficile da raggiungere; e una politica italiana
dell’immigrazione e dell’asilo che si proietti su un arco di medio
termine (cinque-dieci anni) con i relativi investimenti e l’adeguata
mobilitazione di personale, strutture e servizi. E ancora: mutuando e
moltiplicando quelle iniziative – oggi modeste nelle dimensioni, ma
potenti per il messaggio trasmesso – capaci di realizzare canali legali e
sicuri per l’accesso in Italia e in Europa, come il corridoio
umanitario al quale lavorano la Comunità di Sant’Egidio, la Federazione
delle Chiese Evangeliche Italiane e la Tavola Valdese.
D’altra
parte, una semplificazione e una maggiore duttilità delle norme che
amministrano gli ingressi regolari (oggi ridotti a ben poca cosa) e una
più intelligente articolazione del mercato del lavoro in grado di
accogliere e qualificare tanti lavoratori generici, sottraendoli
all’illegalità, potrebbero consentire l’occupazione di settori di
manodopera straniera, oggi marginalizzati. Tutto ciò non è una ricetta
miracolosa, è un percorso lungo, dagli esisti incerti, ma costituisce la
sola alternativa realistica e saggia all’esplosione di laceranti
conflitti etnici e alla stessa dis-integrazione dell’Europa.
Richiede
molto tempo e intelligenza politica e, soprattutto, la capacità di
sottrarsi a quella sudditanza psicologica nei confronti degli
imprenditori politici dell’intolleranza, che sembra paralizzare una
parte estesa della classe politica. Sullo sfondo, un’antica lezione che –
per quanto la storia l’abbia mille volte confermata – sembra, ancora
una volta, restare inascoltata. Quando la sinistra fa la destra, è
sempre la destra a vincere. Di fronte a una copia abborracciata è
pressoché fatale che si finisca con lo scegliere l’originale.