il manifesto 28.6.16
In gioco anche la leadership di Jeremy Corbyn
Londra. Dopo il referendum, si scatena il caos destabilizzante dentro il partito Labour
di Leonardo Clausi
LONDRA
Adesso per il Labour party il “leave” per o contro il quale lottare è
quello di Jeremy Corbyn. Il risultato del referendum non si è limitato a
falciare il premierato di David Cameron, ha esteso il suo caos
destabilizzante dentro al principale partito d’opposizione, squassato da
un’endemica volatilità interna. Mentre scriviamo, è in discussione una
mozione di sfiducia presentata dalle deputate Hodges e Coffs contro la
leadership di Corbyn, accusato formalmente di non essere un leader, di
non aver fatto una campagna sufficientemente entusiasta a favore dello
sconfitto remain, di non essere ora in grado di condurre per il partito
le rinegoziazioni dei trattati commerciali di cui si compone la clausola
50 dell’uscita dall’Unione europea e – accusa più grave, già ricorrente
ma diventata assordante ora che c’è una concreta possibilità di
elezioni anticipate in autunno -, di non essere in grado di portare alla
vittoria il partito.
Corbyn non avrebbe comunque avuto vita
facile in una compagine divisa fra il realismo politico dei suoi
deputati e l’ansia di cambiamento della base, che attraverso le primarie
appena nove mesi fa lo aveva proiettato in cima alla leadership con un
blindato 60 per cento dei voti. Ma l’ormai apparentemente ineluttabile
uscita del paese dall’Ue ha fatto precipitare i programmi di un golpe
che prima era probabilmente solo dilazionato, creando un effetto domino
di dimissioni. E una sessantina di deputati l’ha invitato a farsi da
parte, non considerandolo un «primo ministro credibile».
È un
drammatico crollo quello nelle file laburiste: di unità, di fiducia
nelle proprie possibilità e, sembrerebbe, di lucidità politica. Dopo
aver lui stesso allontanato il ministro ombra degli esteri Hilary Benn
(sostituito con Emily Thornberry), Corbyn si è visto perdere una pletora
di frontbenchers, fra cui alleati chiave come il ministro ombra per il
commercio Angela Eagle il ministro della sanità Heidi Alexander
(rimpiazzata con la fedelissima Diane Abbott), quello dell’istruzione
Lucy Powell, e quello della giustizia Lord Falconer. Parte di loro era
già stata rimpiazzata lunedì mattina ma senza che si arrestasse
l’emorragia che è arrivata finora a 29 defezioni. Che non annoverano
soltanto i soliti noti centristi blairiani ma anche altre figure, come
Angela Eagle, che avevano finora garantito al segretario un appoggio
condizionato. A rincarare la dose e il leader della campagna ufficiale
del partito per il remain, Labour In, Alan Johnson, che ha accusato
Corbyn di aver minato l’efficacia della campagna.
Il vice-leader
Tom Watson, anche lui eletto alle primarie con il sostegno, come Corbyn,
dei sindacati, non si è unito alla fronda ma gli ha comunicato che non
aveva più la fiducia dei suoi deputati. È abbastanza chiaro che ora ci
sarà un’altra elezione del segretario, alla quale Corbyn ha già detto
che si ripresenterà. E che forse rivincerà ampiamente, sempre che gli
equilibri che hanno portato alla sua trionfale quanto storica elezione
meno di un anno fa siano ancora in atto. In tal caso si profilerebbe
come abbastanza plausibile una scissione del partito.
La tensione
spasmodica nelle file laburiste è apparsa evidente quando lo stesso
Corbyn, durante il dibattito in aula lunedì pomeriggio, ha criticato la
fronda di cui è oggetto in mezzo a un coro di «dimissioni, dimissioni». È
forse la prima volta che accade che un leader si pronunci contro i
propri deputati tra gli scranni di Westminster. Corbyn ha difeso la
propria performance come guida della campagna remain ricordando che i
2/3 dell’elettorato labour ha votato per restare e ha addossato al
governo la responsabilità del massiccio voto delle comunità working
class del paese, fortemente penalizzate dai tagli al welfare imposti
dalla maggioranza e auspicando il ritorno a una politica di
investimenti.
Ma ormai il veleno scorre a fiumi. Un altro
dimissionario, Chris Bryant, ha insinuato che Corbyn abbia segretamente
votato leave, e non si perdona al segretario – che non ha mai fatto
mistero di essere un sostenitore “critico” della permanenza – il fatto
di non aver mai fatto accenno al problema dell’immigrazione, lasciando
così in mano alla truculenza della retorica Ukip il monopolio dello
scontento nelle aree storiche dell’elettorato laburista. Ora la crisi
strutturale innescata dall’elezione di un segretario portatore di
un’idealità politica da tempo rottamata dal suo partito è ufficialmente
precipitata. Ed è lotta dura fra i rappresentanti parlamentari e il
proprio elettorato sull’espressione del leader di entrambi, proprio
mentre il partito, nonostante i propri drammi interni, si trova tra le
mani la rara e fortuita possibilità di attaccare duramente quei Tories
che per stridule beghe interne hanno cambiato, probabilmente in peggio,
il futuro di tutto il paese.