il manifesto 28.6.16
Dalla Brexit l’allarme rosso negli Usa: pericolo di trumpismo
Convention Folla al meeting di Politicon a Pasadena, opinioni a confronto sul rischio Trump
L’effetto
del referendum nella ex madre patria è una rimonta della Clinton nei
sondaggi. Ma la sindrome inglese insegna a non fidarsi e a mobilitare
giovani e liberal
di Luca Celada
A Pasadena nel
convention center si tiene il «Coachella del politica»: Politicon. Due
giorni di eventi e dibattiti che si collocano idealmente fra il convegno
politico e il festival rock.
La gente fa la fila per un simposio
su Black Lives Matter mentre nella sala accanto un gruppo di giovani
repubblicani applaude Sarah Palin che dibatte i meriti del trumpismo.
Una specie di festa dell’Unità for profit (i biglietti sono in vendita a
partire da 15 dollari ma ci sono anche quelli Vip che costano fino a
$100). Li hanno comprati migliaia di persone per questo festival che dà
il senso spettacolare della politica Usa. Ci sono conduttori di talk
show, comici, commentatori della Cnn, consulenti di immagine. Prendete
gli ospiti di una settimana di talk show politici italiani e metteteli a
confronto a pagamento per due giorni in un centro congressi per un
evento promosso come un appuntamento sportivo, l’idea più o meno è
questa. È il secondo anno che l’appening viene organizzato e il successo
di pubblico è enorme.
Uno dei simposi più affollati quest’anno è
stato quello sulla Brexit, aggiunto in extremis dopo il voto inglese,
con un moderatore della Bbc, il console britannico e James Carville,
storico consulente elettorale, architetto delle vittorie di Bill
Clinton. Se il mondo politico ha subito il 24 giugno un shock
traumatico, per gli americani la Brexit è stata un cattivo
presentimento, una scadenza carica di presagi, un inquietante avviso di
malaugurio giunto dall’altra sponda dell’Atlantico.
Se ha potuto
cedere così il centro dell’anglofonia illuminata, dove i cugini
«separati ma collegati da una comune lingua» si esprimono con l’accento
che nei film di Hollywood denota tuttora intelligenza ed erudizione,
allora tutto può succedere. È stata questa la sensazione diffusa fra i
molti discendenti degli ex coloni che da mesi stentano a farsi una
ragione della prorompente ascesa del populista di casa propria.
Perché
l’animus politico espresso dalla Brexit è singolarmente affine a quello
del trumpismo. Lo spettacolo esplicitato di una improbabile vittoria
del rigurgito nazional-populista sulla ragione politica, qualcosa che ha
gelato i cittadini illuminati della parte cosmopolita d’America, quelli
che da mesi, nelle redazioni e nelle università – nelle provincie più
«ragionevoli» del paese – vanno cercando di convincersi che sarà
semplicemente impossibile che le forze sgrammaticate dell’oscurantismo
riescano a prevalere. Proprio come si rassicuravano a Londra fino a
giovedì scorso.
La Brexit ha fatto scendere un brivido lungo le
schiene dei liberal che nelle città vogliono convincersi che Trump non
passerà mai. «Trump vincerà non perché è furbo ma perché noi siamo
stupidi», ha avvertito l’indomani in un trafelato video messaggio su
Facebook uno di loro, Van Jones, commentatore progressista della new
left vicino al movimento Black Lives Matter. Nella sua geremiade contro
la compiacenza della sinistra di fronte al disastro incombente ha
proseguito: «I brexisti sono razzisti e xenofobi quanto i trumpisti – e
guarda un po’ – hanno vinto. Date uno schiaffo al vostro amico che sta
attaccato a Npr (equivalente a radio 3, ndr), mangia tofu e ride di
Trump. Non è buffo! É orribile! È ora di preparare il paese a una
battaglia finale».
Manco a farlo apposta, con apparente
imperscrutabile istinto, la stessa mattina del «day after» in cui
l’Europa si è svegliata in stato di shock, l’aereo di Donald Trump
atterrava in Scozia. Il viaggio era stato da lungo tempo programmato per
promuovere l’inaugurazione del suo ultimo resort di lusso, ma il
tempismo non avrebbe potuto essere di migliore auspicio per il magnate
candidato, giunto giusto in tempo per lodare la Brexit come grande
vittoria di una ribellione gemella.
«Qui sono in visibilio. Si
sono ripresi il paese e lo faremo pure noi!», ha subito twittato. Il
fatto che la Scozia quella notte avesse inequivocabilmente votato per il
remain è stato un semplice dettaglio trascurabile, visto che fatti e
dati non sono notoriamente che irrisori impedimenti per il populista
rampante. Da questo punto di vista la vittoria della Brexit è di per se
un assist a Donald Trump, dato che come ha dichiarato un commento a
caldo sul sito del Financial Times «i nostri argomenti razionali sono
rimbalzati sulla loro mitologia come pallottole su un mostro alieno di
Hg Wells».
Nella politica «post-fattuale» di Trump e dei populismi
mondiali che gli si allineano, i fatti non contano, gli esperti sono
tendenziosi, la scienza è elitismo propagato dai politici per i loro
interessi. Ma mentre fino alla scorsa settimana questa era una
inquietante ipotesi, la Brexit l’ha concretizzata in una strategia
politicamente vincente. «È un segno catastrofico», ha detto Jones. «Se
non ne faremo tesoro potremmo precipitare nello stesso vasto abisso di
stupidità in cui sono caduti gli inglesi».
La sindrome inglese
potrà sembrare irrilevante alla luce degli ultimi sondaggi nazionali che
danno Hillary Clinton nuovamente in vantaggio di dieci punti, se non
fosse che un’altra cosa dimostrata dalla Brexit è proprio
l’inaffidabilità dei sondaggi, quando applicata a un elettorato
diffidente e portato a celare la proprie preferenze. Trump dispone di un
serbatoio ignoto di potenziali elettori «sotto il radar», simili a
quelli che hanno siglato la sorpresa inglese.
Inoltre tutto indica
che anche quest’anno l’elezione americana verrà decisa nella manciata
di Stati in bilico, che nel sistema maggioritario da soli possono
spingere da una parte o dall’altra il collegio elettorale che determina
il presidente. Stati come l’Ohio, la Pennsylvania, il North Carolina, il
Wisconsin e la Florida, dove i margini che dividono i candidati sono
molto più piccoli.
A Politicon non sono mancate opinioni più
ottimiste. James Carville ha sostenuto che «la Brexit potrebbe aver
l’effetto opposto: quello di un esempio pratico negativo per gli
americani». Un’ipotesi plausibile ma che non cambia alcune lezioni
inconfutabili sulle dinamiche della politica post ideologica e tardo
globalista apprese dall’ex «madre patria».
Per cominciare la
scissione cruciale fra città e campagne, cultura urbana e rurale – o
come si dice qui fra stati rossi e stati blu. Poi la spaccatura
generazionale. Il regno dis-unito ha ben dimostrato, come già aveva
fatto il confronto Hillary-Bernie, quanto sarà cruciale l’apporto
dell’elettorato giovanile per contrastare la forza conservatrice dei
loro padri e nonni. Ovvero quanto sarà cruciale la partecipazione per
fermare la marea populista.
«Il remain ha perso in gran parte
sull’affluenza», conclude Jones. «È assolutamente essenziale mobilitare
l’elettorato progressista sin d’ora. L’Inghilterra ci ha avvertito: i
retrogradi affluiranno in massa».