il manifesto 23.6.16
Ora nessuno più crede al diluvio
Democrack.
Né Zingaretti né Errani, nessun ingresso di peso in una segreteria
irrilevante. Oggi le proposte della sinistra Pd, anche dalla maggioranza
c’è chi teme il peggio e chiede di non personalizzare il referendum.
Renzi si porta avanti con il lavoro, avverte che non darà corda alla
Ditta: non credo ai caminetti, non discutiamo di poltrone
di Daniela Preziosi
ROMA
Forse Renzi ci ha pensato. Forse nella lunga notte dello shock fra
domenica e lunedì per un attimo lo ha sfiorato davvero il dubbio di
aprire un confronto con la minoranza bersaniana che questo pomeriggio si
riunirà al Nazareno per lanciare una piattaforma per far «cambiare
verso» alle politiche del governo, in senso opposto a quello seguito
finora. Oggi Roberto Speranza, candidato in pectore al congresso che
verrà anticipato a fine anno o a inizio del 2017, chiederà un
«cambiamento di rotta delle politiche sociali», la modifica
dell’Italicum con il premio alla coalizione, e infine la messa a tema
della divisione fra ruolo di premier e quello di segretario. Perché,
spiegano, «non è scritto nello statuto e se nel febbraio 2013 Bersani
fosse diventato presidente del consiglio tutti sanno che non avrebbe
continuato a fare il segretario». Ma quest’ultima discussione è oziosa:
se ne riparlerà a congresso, e la sinistra Pd ha già perso un congresso
su questo tema.
Comunque l’abbia pensata nelle ore dopo il voto,
Renzi si è ripreso dalla batosta e ora non ha alcuna intenzione di dare
corda alle doléances di Cuperlo e della Ditta. Lo si capisce dal tono
della newsletter che ha inviato ieri al partito (quello che sta always
on). «Il Pd deve caratterizzarsi per le cose che propone, non per le
proprie divisioni interne», quindi no alla «classica polemica sulle
poltrone in segreteria o sul desiderio delle correnti di tornare a
guidare il partito. Non credo ai caminetti: apriamo le finestre,
spalanchiamole».
Naturalmente a far circolare i nomi di nuovi
innesti nella segreteria erano stati i renziani. Avevano parlato del
governatore del Lazio Nicola Zingaretti, che però non aveva ricevuto
nessuna proposta e che notoriamente ha parecchio da lavorare. Non andrà
in segreteria, come non ci andrà Vasco Errani, appena assolto
dall’accusa di falso ideologico. Ma poi a che pro innestare nomi di peso
in una segreteria ridotta a disdicevole cassa di risonanza delle
decisioni del governo?
Sul piatto della riunione di direzione di
domani c’è anche il referendum. La sinistra interna cerca un alibi per
non partecipare alla campagna del sì, magari lamentando il tradimento
della promessa legge sull’elezione dei senatori. Difficile che arriverà a
votare no. Lo hanno già detto Bersani e Cuperlo. Solo D’Alema ieri al
Corriere ha svelato quello che da tempo non era più in segreto, il suo
no.
E così nonostante gli appelli di Prodi («Se non cambiano le
politiche, il politico cambiato si logora anche in due anni»), quelli di
Bersani e di D’Alema e infine il silenzio eloquente di Enrico Letta,
ora la minoranza interna rischia di vivere il momento cruciale del
referendum costituzionale da spettatrice: se vincerà il sì il renzismo
sarà incontenibile, se vincerà il no non potranno spartirsi il merito.
Dalla
maggioranza invece arrivano sennate richieste di non personalizzare lo
scontro referendario. Lo chiede l’area del ministro Franceschini, i
giovani turchi del presidente Orfini e del ministro Orlando e perfino la
corrente dei bersaniani ’buoni’ del ministro Martina («Da tempo gli
diciamo che è la strada sbagliata»). Ma è una richiesta tardiva. Ormai
Renzi ha messo nell’urna referendaria la sua testa. Ritirare le
dimissioni in caso di sconfitta sarebbe interpretato come un segno di
paura e poltronismo. Può decelerare sulla personalizzazione e tentare
una comunicazione basata sulla semplificazione della vita democratica.
Sempreché qualcuno gli creda ancora.
Perché il voto ha messo in
evidenza, per dirla con Speranza, che «la narrazione è finita, i
cittadini hanno misurato la distanza fra il racconto del palazzo e la
realtà». Anche l’idea del diluvio in caso di sconfitta comincia ad
apparire come una favola a fini di propaganda. Nella minoranza c’è chi
spiega: «Se al referendum vincessero i no la strada sarebbe un governo
istituzionale per fare una nuova legge elettorale, e nel frattempo
svolgere il congresso Pd».
Vittoria del no. L’idea impossibile
oggi sembra persino probabile. In realtà Renzi l’aveva capito sin da
aprile. Al referendum sulle trivelle 16 milioni di persone sono andate a
votare in assenza di un’informazione degna di questo nome e contro le
indicazioni del capo del governo. Se il fronte del no fosse capace di
ripetere la performance avrebbe vinto. Renzi, dicevamo, l’aveva capito.
Non i suoi piccoli fan del parlamento, quelli che avevano sfottuto i ’no
Triv’ con il «ciaone».