il manifesto 23.3.16
Il tradimento necessario che espone alla vita
La nuova edizione di «Of Grammatology» di Jacques Derrida con un’introduzione di Judith Butler
A
quarant’anni dalla prima traduzione inglese, comparsa proprio a opera
di Spivak, viene ora rieditata in una versione per la Johns Hopkins
University Press
di Federico Zappino
La prima
traduzione, nel 1976, di Of Grammatology, a opera della femminista
indiana Gayatri Chakravorty Spivak, diede nuova vita a De la
grammatologie, di Jacques Derrida, uscito invece in Francia nel 1967: di
fatto, aprì all’internazionalizzazione del pensiero del filosofo
francese. Proprio per la natura dell’opera, tuttavia, il gesto di Spivak
– questa sua impresa monumentale – sollevò non pochi interrogativi
critici. Due, i più pressanti. Come sarebbe stato possibile tradurre, e
poi leggere, Derrida in un’altra lingua, alla luce del guanto di sfida
gettato dal filosofo ai canoni della leggibilità? E come sarebbe stato
possibile, in secondo luogo, che la traduzione inglese non fallisse
miseramente nel catturare la «pienezza» dei «termini» attraverso i quali
l’«originale» sottoponeva a decostruzione ogni termine?
A
quarant’anni dalla prima traduzione in inglese, Spivak ritraduce oggi, e
forse riscrive, Of Grammatology di Derrida (Johns Hopkins University
Press, pp. 560, introduzione di Judith Butler). «Riscrivere» non va
inteso come se Spivak ne divenga l’autrice o che rimpiazzi l’originale;
piuttosto, significa che il concetto di autorialità, nonché quello di
originalità, subiscono un disfacimento.
A ben vedere, la prima
domanda ineriva alla capacità, da parte di Spivak, di farsi
rappresentante dell’opera di Derrida, ossia di preservarne, o di
istituirne, una qualche leggibilità. La seconda, invece, ineriva alla
sua capacità di riconoscerla, ossia di tradirla ma ai fini della
traduzione – e non il contrario. L’introduzione, potente, di Judith
Butler, scritta per l’occasione di questa riscrittura,si esercita, in
questo senso, in un tentativo di risposta: restituisce la storia di
Spivak che traduce Derrida e la sua ricezione negli USA – una
restituzione che è a un tempo una rappresentazione, e un gesto di
riconoscimento. Ci sono due soggetti – ciascuno dei quali ha una propria
consistenza– che si rincontrano, dopo quarant’anni.
E proprio
perché si stanno rincontrando, proprio perché stanno ritraducendo
l’occasione del primo incontro, o forse è la forza di quell’incontro a
invocarne la ritraduzione, deve esserci qualcuno a riconoscere quel
gesto, e a rappresentarlo. Né Spivak né Derrida hanno perso la voce. Non
è detto, però, che essa riesca a essere immediatamente decifrabile. A
volte non si riesce a parlare proprio perché si sta agendo. E la
traduzione è un’azione stancante. La traduzione, infatti, altera
retroattivamente il linguaggio di partenza con lo stesso gesto
attraverso il quale torce, e potenzia, il linguaggio di arrivo. Nessuno
dei due codici, in altri termini, rimane identico a se stesso, dopo la
traduzione. Il loro disfacimento è precondizione per la creazione di un
linguaggio che è dell’ordine del molteplice. E la traduzione, nel suo
senso più politico, svela l’illusione di ogni fantasia di sovranità.
Quest’occasione
lo riconferma. Ci sono dei soggetti, da una parte, e c’è una
presentazione, dall’altra. E quei soggetti pervengono a intelligibilità
solo grazie a questa nuova presentazione. Con questo non significa che
quei soggetti, e loro relazione, possano essere ridotti alla
presentazione, ma significa senz’altro che questo loro nuovo incontro
divenga intelligibile, nuovamente, solo attraverso una presentazione. La
composizione di questo assembramento, d’altronde, lo consente. Né
Derrida, né Spivak, né Butler hanno mai avuto nostalgia di un soggetto
autofondato, di un soggetto, cioè, che entra nel discorso così come ne
esce – un soggetto che non necessita di alcuna presentazione, e di
alcuna traduzione. D’altro canto, non sempre le presentazioni che fanno
gli altri di noi, sono in grado di rappresentarci e di riconoscerci. In
altre parole, si tratta di cattive traduzioni. Ma anche se la
presentazione può essere una cattiva traduzione, in nessun modo tale
eventualità ne intacca il suo carattere necessario – nessuno di noi
potrebbe pervenire a esistenza, in assenza di una presentazione. Se ciò
accadesse, infatti, sarebbe la vita stessa a essere forclusa dalla
presentazione che il soggetto fa di sé: un soggetto che pur di restare
aggrappato alla propria autodefinizione, esclude la possibilità della
vita. Of Grammatology non può certo essere questo tipo di soggetto.
Forse perché Of Grammatology non è propriamente un soggetto – ne è la
crisi.
Più che un libro, Of Grammatology è la sua tomba. Cosa
significa, oggi che Derrida non c’è più, rappresentare e riconoscere
questo monumentale tentativo di mantenere aperta la traduzione, di porla
in prima linea per affermare la deiescenza delle nostre categorie di
pensiero più importanti, e per fare di questa deiescenza una necessità?
Significa costringere il linguaggio a una trasformazione, che lo induce a
uno spaesamento, che lo induce a un disfacimento. Ancora una volta,
come quarant’anni fa. Che lo espone a un lutto. A un certo tipo di lutto
necessario, ancora una volta, l’unico dal quale emerge, come ogni
volta, la vita.