il manifesto 22.6.16
Giovanni De Luna: «Pd al capolinea ma M5S non è la risposta»
Intervista.
Secondo il professore di storia contemporanea all'università di Torino,
la giunta di Piero Fassino era valida però non ha funzionato la
trasformazione da una dimensione fordista inclusiva all'idea di un città
della cultura da cui molti cittadini si sono sentiti esclusi. "A Torino
il problema non è la miseria ma Appendino è stata brava ad intercettare
una serie di stratificazioni sociali che si sono sentite ai margini".
La sconfitta si spiega anche con la deriva del Pd di Matteo Renzi che "è
ridotto a una sorta di federazione di feudi tenuti insieme dalla
gestione del potere"
intervista di Luca Fazio
MILANO
Giovanni De Luna, 73 anni, insegna storia contemporanea all’università
di Torino. Figura di intellettuale non militante ma sempre attento al
dibattito politico, è autore di numerosi saggi sulla storia del
Novecento, in particolare sul fascismo e la Resistenza. Gli abbiamo
chiesto di leggere il voto che ha sconvolto il panorama politico
italiano, a cominciare dalla clamorosa sconfitta di Piero Fassino
sconfitto al ballottaggio da Chiara Appendino.
Professor De Luna, come spiega quanto successo a Torino? Se lo aspettava?
Non
me l’aspettavo. Chiara Appendino di suo ha che non rappresenta il
grillino tipo, non ha fatto una campagna elettorale aggressiva e ha
assunto un basso profilo mediatico. Ha proposto un’immagine rassicurante
e ha funzionato. Altri fattori sono stati decisivi. La sua appartenenza
alla borghesia torinese tradizionale non ha spaventato l’elettorato, ha
lavorato per la Juventus e questo significa essere dentro a una Torino
di un certo tipo. Non corrisponde all’identikit di una rivoluzionaria.
E’ stata brava ad intercettare una serie di stratificazioni sociali che
si sono sentite escluse. Credo che le giunte di centrosinistra degli
ultimi 23 anni siano state valide perché hanno trasportato Torino da una
dimensione fordista a quella culturale. Il problema è che il modello
fordista era inclusivo, i quartieri di Torino erano operai e tutta la
vita della città si plasmava su quel modello, le persone puntavano la
sveglia alla stessa ora. La sostituzione di quella dimensione con il
“modello culturale” però non ha funzionato. Bisogna ammettere che
bisogna essere capaci se si riescono a portare un milione di persone al
museo egizio, però questa efficacia non ha avuto e non ha la forza di un
modello inclusivo. Ci vuole qualcosa in più, ci vuole la politica.
Appunto.
Si andava dicendo che Piero Fassino aveva governato bene. Il voto però
ha smentito clamorosamente questa sorta di autocompiacimento. Non è
semplicistico attribuire la sconfitta a un generico voto di protesta?
C’era
un forte nucleo di verità in quell’autocompiacimento. Torino in questi
venti anni è stata governata da una sorta di casta, ma non era una casta
parassitaria. Però è vero che questa casta ha escluso tutta una parte
di cittadini. C’è stato un voto rancoroso che esprime mugugni e
frustrazioni, c’è poi stato il voto di chi si è sentito escluso dalla
parte buona della città. Tutti oggi parlano di periferie, ma
intendiamoci: le periferie torinesi non sono come le banlieues francesi.
In quei luoghi c’è un benessere che non si è tradotto in qualità della
vita, quelli sono soprattutto luoghi tristi.
Su la Repubblica l’ex
sindaco ha detto che quando un pensionato guadagna 400 euro al mese e
deve mantenere un figlio disoccupato va a finire che vota Grillo. Lui
però è un dirigente del partito che governa, forse si è accorto con
qualche anno di ritardo del disagio sociale che affligge una parte dei
cittadini. Appendino ha detto vivo in una città dove ci sono le code ai
musei e le code davanti alle mense per i poveri. Forse è questo il
punto.
Il problema a Torino non è la miseria, non c’è
emarginazione sociale. Ma è vero che nelle periferie non si sono servizi
per i cittadini, non ci sono biblioteche. Ci sono quartieri con
casermoni a stretto contatto con i campi rom e in quei luoghi è
cresciuto un risentimento incredibile. Sono persone che hanno comparato
quelle case negli anni ’60 e ’70, non ci sono sacche di indigenza, è la
qualità della vita che è desolante. Sul Movimento Cinque Stelle voglio
essere chiaro, a me questa cosa ricorda le origini della lega, gli umori
che asseconda sono gli stessi. E’ una mutazione genetica delle forme
della rappresentanza politica, io sono un uomo del Novecento.
Fassino
si ostina a parlare di antipolitica. Però il percorso di Chiara
Appendino – e anche di Virginia Raggi – dice l’opposto. Sono due giovani
donne che cinque anni fa sono entrate in consiglio comunale e oggi sono
diventate sindaco.
Non direi antipolitica, quella del M5S è una
forma diversa di organizzazione politica. Chiara Appendino ha la sua
forza nella militanza, negli ultimi cinque anni ha fatto politica
ininterrottamente, i grillini hanno riscoperto la militanza dal basso.
D’altra parte il Pd ormai si è ridotto a una sorta di federazione di
feudi tenuti insieme dalla gestione del potere. Non c’è dubbio che il
segreto del loro successo sia la riscoperta del porta a porta. Ma è sui
loro valori di riferimento che ho molte perplessità. Lo devo ammettere,
per me è una ferita sapere che molti miei amici li abbiano votati.
Lei
ha sostenuto Fassino dicendo “sono perplesso rispetto ai movimenti come
il M5S che azzerano il passato negandolo in nome di un nuovo senza
forma e sostanza”. Però è innegabile che il profilo di Chiara Appendino
abbia tratti in comune la sinistra. A cosa si riferisce quando parla di
passato negato?
Era una frase estrapolata. Quando dico che
dobbiamo rifondare un patto con la memoria intendo dire che bisogna
decidere cosa dobbiamo tenere e cosa dobbiamo buttare del nostro
passato. In questi ultimi venti anni, Costituzione, Resistenza e
antifascismo vengono sbandierati solo in chiave elettorale e niente più,
mentre si sono moltiplicate in maniera patologica le commemorazioni di
tipo vittimario. E loro sono intrinsechi a questo modo di ragionare. Tra
i loro santi laici non ce n’è uno che abbia a che fare con la
Resistenza, però ci sono tutte le vittime della mafia e le vittime del
terrorismo, che poi finiscono per essere tutte uguali.
Non è che la sinistra sia sfuggita a questo paradigma vittimario.
Certo,
non riguarda solo i cinque stelle. Ma voglio credere che per la
sinistra alcuni eventi fondativi possano essere ancora il terreno per
ricostruire una storia condivisa.
Il Pd, in tutte le grandi città,
si afferma solo nelle zone dove abitano i cittadini benestanti. Come
giudica questa incapacità di “creare popolo”?
Di sicuro questo è
l’approdo di un percorso lunghissimo. Penso a Togliatti quando vuole
allearsi con De Gasperi, al compromesso storico, o a D’Alema che
attraverso la bicamerale voleva riformare la Costituzione con
Berlusconi… continuando a inseguire il tuo avversario va a finire che il
tuo avversario si sostituisce al tuo partito. Matteo Renzi è solo il
prodotto finale di una lunga storia. Il Pd, con totale disinvoltura,
considera il mercato come l’unico mondo possibile. Si sono tuffati in
questa realtà.
Un processo irreversibile?
Ho l’impressione
che il Pd sia arrivato al capolinea di una lunga stagione politica. Per
tornare a Torino, guardiamo a Piero Fassino: anche lui non ha saputo
creare una nuova classe dirigente, quella esistente proviene ancora dal
vecchio Pci e i nuovi politici sono agghiaccianti dal punto di vista
della loro pochezza. Detto questo, continuo a pensare che il Movimento
Cinque Stelle sia una risposta sbagliata.
Il clamoroso voto di
Torino, che è la città del lavoro per eccellenza, la città del movimento
operaio, la culla della Resistenza e molto altro ancora, non dice forse
che per la sinistra potrebbe essere finita una storia? Secondo lei c’è
ancora spazio per una forza non residuale di sinistra in Italia?
Io
continuo a credere che sinistra e destra, prima che due formazioni
politiche, siano soprattutto due dimensioni esistenziali. Ci sono due
Italie che per quasi un secolo si sono confrontate e scontrate duramente
e questa tensione c’è sempre, i bacini naturali di riferimento di
queste dimensioni esistenziali ci sono sempre. Questo è un discorso che
vale per la sinistra ma anche per la destra, in questa fase storica la
destra è spappolata politicamente ma l’identità comunque c’è e rimane
ancora forte.
E’ una lettura che lascia spazio a qualche speranza
oppure significa che la “sinistra” dovrà restare alla finestra ancora
per un paio di generazioni?
Non lo so, e non è detto, nella storia
e in politica agiscono meccanismi di rigenerazione anche rapidi.
Guardiamo quello che è accaduto in pochi anni con il Movimento 5 Stelle,
è un esempio. Il meccanismo dipende anche dalle congiunture che si
attraversano, per questo non me la sento di dire che sia una storia
finita. Se poi mi si viene a parlare di quegli embrioni organizzativi
che si stanno muovendo alla sinistra del Pd, allora sì, mi viene da dire
che quella sia proprio una storia finita.