il manifesto 22.6.16
Prime crepe nella corte renziana
Democrack.
Il gelo di Fassino: «Non replico alle dichiarazioni altrui», le parole
di Chiamparino: «Due anni fa il Pd non era così». Ma alla direzione di
venerdì si ascolterà solo l’attacco della minoranza: su Italicum,
politiche sociali e Roma
di Daniela Preziosi
ROMA
Il primo a smarcarsi apertamente da Matteo Renzi è Piero Fassino.
Comprensibile. Su di lui il premier è stato durissimo quando a spiegato
che un renziano del 2014, cioè della prima ora, a Torino avrebbe votato
Chiara Appendino, la giovane candidata a 5 stelle che ha fermato – e
piegato – l’ultimo segretario dei Ds. Alla domanda diretta, ieri in
conferenza stampa, l’ex sindaco ha indossato la sua faccia più
inespressiva: «Non è mia abitudine commentare dichiarazioni altrui». Ma è
chiaro che c’è del freddo con il segretario, anzi del gelo quando poi
ha spiegato che alla luce del risultato «il tema non è cercare capri
espiatori ma interrogarsi su come il Pd rilancia il suo ruolo di
principale partito italiano. I risultati del voto richiedono una
riflessione su tutto il partito non solo su quello piemontese».
Se
ne discuterà venerdì alla riunione della direzione. Lì la minoranza
attaccherà alzo zero su Italicum, alleanze e politiche del governo. Per
questo sarà molto difficile che qualche voce della maggioranza sommerà
lì il proprio dissenso. Ciò non toglie che nelle mille sfumature del
renzismo, qualcuna comincia a dare segnali di malumore. Visto che, dati
alla mano, questo stile non paga né politicamente né elettoralmente. La
minaccia di usare «il lanciafiamme» nel partito e di «accelerare la
rottamazione» non ha migliorato le cose.
Dunque si apre qualche
crepa nel renzismo della seconda e terza ora. La banda del segretario
comincia ad avere qualche sbandamento. L’area più suscettibile è quella
del ministro Dario Franceschini, le cui mosse sono sempre sotto
osservazione visto che nel 2014 era stato il primo a smarcarsi da Letta
quando aveva capito che l’aria stava cambiando. Nelle ore subito dopo il
voto la vicepresidente della Camera Marina Sereni, franceschiniana di
ferro, ha spiegato che «la sconfitta di Torino è perfino più bruciante
di quella di Roma. Per il Pd si tratta di un risultato con molte
criticità, da capire, da prendere sul serio». Insomma, questa volta si
leggerà con attenzione il risultato del voto. Anche il presidente della
regione Chiamparino difende Fassino dall’accusa di «vecchio»: «Sarebbe
troppo comodo cominciare a dire che la colpa è di Tizio, di Caio e di
Sempronio», «Un partito deve essere una comunità politica capace di
ascolto e di comprensione dei bisogni e delle sofferenze e che fa uno
sforzo per tradurli in speranza. Il Pd di due anni fa assomigliava molto
a quanto ho descritto oggi molto di meno». Insomma da due anni fa a
oggi il partito è cambiato: e cioè da quando c’è Renzi. Poi c’è Matteo
Richetti, cattolico non privo di ambizioni, che all’Huffington Post
dichiara che «la rottamazione, per come l’abbiamo immaginata all’inizio,
è un insieme di cose. Non solo facce nuove ma idee innovative, talento e
non cooptazione, partito con le porte aperte nella società non partito
che non c’è, meritocrazia non cerchio magico, potere come mezzo non
governismo con Verdini».
Piccoli segnali, alcuni neanche inediti,
che il renzismo che fa vincere forse non fa vincere più. E che quindi
qualcosa deve essere cambiato per evitare un brutto risveglio al
referendum di ottobre. Ma per ora sono solo «sbandate» da capannello di
Transatlantico. Dove, per esempio, filtra la tensione dei Giovani
turchi, la corrente di Matteo Orfini, commissario del Pd romano, e
Andrea Orlando, per il tentativo di accollare loro le sconfitte di Roma e
napoli (Valeria Valente, la candidata buttata fuori dai ballottaggi, è
di rito orfiniano). In direzione i bersaniani chiederanno le dimissioni
di Orfini dall’incarico romano. Dal Nazareno si è già alzato lo scudo su
di lui, ma c’è da ascoltare cosa dirà Renzi, che sulle spalle di Orfini
un anno fa ha già scaricato la crisi Marino. Nel generale malumore c’è
chi, come la piccola truppa del ministro Martina (corrente «Sinistra è
cambiamento», cioè ex bersaniani ora collaborativi), pronta a farsi
avanti per appoggiare più baldanzosamente la nuova fase del renzismo.
Ma
nulla di tutto questo si vedrà venerdì nello streaming. Si vedrà invece
l’attacco coordinato della minoranza, che già domani si riunisce per
discutere. Italicum, doppio incarico e politiche del governo, i tre
punti di attacco. «Il risultato delle elezioni è un fatto politico. Se
facciamo il jobs act e i lavoratori non ci votano, se facciamo la buona
scuola e gli insegnanti sono inferociti, si potrà dire che così non
va?», dice Nico Stumpo. «La mancanza di una politica delle alleanze ci
ha fatto terra bruciata intorno, i ballottaggi dicono che siamo isolati
nella società. E il partito è ridotto alla cassa di risonanza del
governo». Bersani ha già detto la sua: «Abbiamo avuto sbandamenti che
hanno incoraggiato un’idea di trasformismo, di Francia o Spagna purché
se magna». Forse la ridirà. Ma difficile che gli equilibri della
direzione cambieranno. Per ora.