il manifesto 20.6.16
Pd sotto choc, Renzi ha un problema
Democrack.
L’imbarazzo dei vertici dem: «Risultato frastagliato». Convocata già
nella notte una direzione per il 24 giugno. Il crollo di Torino fa
calare il gelo al Nazareno. Nella Capitale il candidato Giachetti è
elegante: «Questa sconfitta mi appartiene», ma nel partito si apre
ufficialmente il «caso Roma». Renzi e la promessa del «lanciafiamme».
Milano regge, ma il messaggio è chiaro: si vince dove la sinistra si
unisce. Minoranza Pd pronta all’affondo sulla coalizione e sull’Italicum
di Daniela Preziosi
ROMA
Milano regge, ed è la città su cui Renzi ha puntato di più sin
dall’inizio della campagna delle comunali. Ma al Nazareno non basta per
inventarsi uno storytelling della vittoria. Non basta neanche il
positivo – combattuto ma comunque atteso – risultato di Virginio Merola a
Bologna. La batosta romana, ma soprattutto lo choc di Torino, storica
roccaforte della sinistra che a sorpresa deve cedere il passo ai 5
stelle fa calare il gelo nella stanza del segretario. Il consiglio di
guerra è composto dalla vicesegretaria Deborah Serracchiani, il
presidente Matteo Orfini ed il tesoriere Francesco Bonifazi. Alla fine
ci sarà solo una nota ufficiale con «i migliori auguri di buon lavoro da
parte del Pd» ai nuovi sindaci. Quanto alla bomba del voto: il quadro
«è molto articolato. Perdiamo alcuni comuni dove abbiamo governato a
lungo e vinciamo in altri dove da vent’anni la destra era maggioranza.
Resta l’amaro in bocca per alcune sconfitte molto dure, da Novara a
Trieste». Insomma il dato è «frastagliato». Ma al di là del politichese
l’allarme rosso lo esprime più di tutti l’immediata convocazione della
direzione nazionale per venerdì 24 giugno.
«In ogni caso non
abbiamo vinto», qualcuno spiega. E ti credo. Il voto dei ballottaggi per
Renzi non è un campanello d’allarme. È un campanaccio. Parla delle
condizioni del partito e della sua persona: l’aria è cambiata, il 41 per
cento delle europee è un ricordo. Il premier-segretario sa che stavolta
per i suoi candidati non è stato un valore aggiunto. Anzi. Non ha
giovato aver buttato nel mezzo della campagna elettorale la battaglia
del referendum costituzionale, tema «divisivo» che ha messo in
difficoltà i candidati. I passi indietro alla vigilia dei ballottaggi
non sono bastati.
E poi c’è la Capitale. Ribaltare il risultato
del primo turno, nonostante la combattività del candidato, era una
missione impossibile. A urne appena chiuse il presidente dei deputati
Ettore Rosato ammette a Porta a Porta: «Dobbiamo prendere atto di questo
risultato, partendo dagli errori fatti a Roma e ma anche da quanto di
buono è stato fatto».
Ma il buono non è molto, e la percentuale
verso cui precipita Bobo Giachetti, il 32 per cento, lo conferma. Lo
sconfitto chiude la partita prima della mezzanotte presentandosi ai
giornalisti e annunciando di aver fatto gli auguri alla nuova sindaca.
Si carica sulle spalle la responsabilità del risultato: «È una sconfitta
che mi appartiene». Gesto elegante. Ma le cose non stanno così, il
candidato – renziano ma sui generis – ha fatto il massimo. E ora il
tonfo apre ufficialmente il «caso Roma»: dopo un anno e mezzo di
commissariamento di Matteo Orfini, dopo il profondo ridisegno della
fisionomia del partito e – non ultimo – dopo la sordina messa ai tanti
malumori del corpo militante. «Oggi siamo un altro partito», aveva detto
Giachetti alla chiusura della campagna elettorale. Vero. Ma che partito
è diventato oggi il Pd a Roma? La risposta stava nelle facce
interrogative dei sostenitori accorsi venerdì pomeriggio al Ponte della
Musica, alla chiusura della campagna per i ballottaggi. Dov’erano
bandite le bandiere del Pd. L’ultima fiammata della campagna,
all’attacco forsennato di Virginia Raggi per le consulenze taciute, in
pieno stile grillino e del tutto fuori delle corde dello stesso
candidato, non è servito se non a disorientare l’elettore dem alle prese
con toni lontani dalla sua cultura.
Renzi ha annunciato di voler
entrare «con il lanciafiamme» nel partito. Forse non solo quello di
Napoli, il primo a cadere e non arrivare neanche ai ballottaggi, ma
anche in quello di Roma. La tentazione sarà quella di accollare le
sconfitte ai dirigenti non renziani: la componente dei giovani turchi
firma il risultato di Napoli (la candidata Valente è vicina a Orfini e
al ministro Orlando) e quello di Roma, sotto la regia di Orfini. Ma se
Renzi cercherà capri espiatori come ha fatto fin qui sarà solo per
sfuggire alla realtà della crisi del suo partito. La battuta d’arresto
di Torino, svela che il disimpegno coinvolge anche lo zoccolo duro.
Regge
invece a Milano. E regge non si può non vederlo, quando il Pd si apre a
sinistra – male, bene, sarebbe un’altra storia. I primi dati parlano di
17mila voti determinanti per Sala al secondo turno: esattamente lo
stesso risultato di Basilio Rizzo di Milano in comune.
È il tasto
che batterà adesso la minoranza del partito, quella di Bersani, Speranza
e Cuperlo. Che ha lavorato alla campagna elettorale per non essere
accusata di «puntare alla sconfitta» ma che ora prepara l’affondo
proprio sulla ricostituzione del centrosinistra e sulla modifica del
premio di maggioranza dell’Italicum dalla lista alla coalizione. Da
giorni Bersani si morde la lingua e promette di parlare «dopo il voto».
L’appuntamento fissato in largo anticipo dai riformisti proprio il 24
giugno, ieri notte è saltato d’imperio, sostituito dalla direzione del
partito. Sarà lì che si aprirà l’attacco. E Renzi potrà decidere se
andare avanti con il renzismo ad oltranza, inventandosi nuovi nemici
interni e nuovi gufi, oppure se raddrizzare la barra, dentro e fuori il
Pd, e aprire una nuova stagione. Prima del referendum.