il manifesto 19.6.16
Verità per Giulio Regeni, l’Egitto Paese non sicuro
di Luigi Manconi
La forza letteraria e direi politica delle parole di Paola Regeni suscita ogni volta stupore e ammirazione.
«Azioni,
non commemorazioni»: ha detto la madre di Giulio, il ricercatore
italiano ucciso al Cairo, davanti alla Sottocommissione per i diritti
dell’uomo del parlamento europeo, mercoledì scorso.
Le
commemorazioni non sono inutili, tutt’altro, ma si portano appresso,
fatalmente, un che di rassegnato e di irreparabilmente consunto.
Consummatum est: resta, e può persino rinnovarsi, la memoria, ma rischia
di essere una memoria definitivamente esausta.
Che può resistere
come un simulacro, anche potente, ma non più vitale. E le «azioni»?
Paola e Claudio Regeni, nella loro condizione di «genitori erranti nelle
istituzioni» (così si sono definiti), hanno voluto, una volta ancora,
pronunciare parole limpide e ineludibili, chiedendo al governo italiano e
all’Unione europea di «aumentare la pressione sull’Egitto per ottenere
un’indagine trasparente».
E, ancora più concretamente, hanno
sollecitato l’Italia a «dichiarare l’Egitto paese non sicuro»; a
«sospendere l’attività interforze per il controllo e la repressione
interna, l’invio di armi e apparati bellici»; e a «monitorare i processi
contro attivisti, avvocati e giornalisti che si battono per la libertà
in Egitto».
Queste ed altre richieste evidenziano quanto sia
drammaticamente ampio lo scarto rispetto ai comportamenti del governo
italiano, che sembrano, nei confronti del regime egiziano, troppo spesso
lenti fino all’inerzia e incerti fino all’acquiescenza. Com’era
inevitabile, il presidente del Consiglio si è sentito sollecitato –
poteva essere altrimenti? – e ha replicato con parole che, ahinoi, sono
apparse esili e vaporose: «Nei prossimi giorni cercheremo di nuovo di
capire quale sia lo stato dell’arte e l’aggiornamento della situazione, e
sentiremo i genitori di Giulio».
Risulta davvero troppo poco,
troppo poveramente inadeguato rispetto a una tragedia di tale entità e
significato, alle implicazioni che comporta sul piano interno e su
quello sovranazionale, e a un atteggiamento – quello del regime egiziano
– che riproduce una sua coerente e sorda ostilità.
Sì, certo, il
nuovo ambasciatore italiano al Cairo non si è ancora insediato e,
dunque, resta formalmente «richiamato» nel nostro paese: ma a questo
primo atto, risalente all’8 aprile scorso, non ne sono seguiti altri.
Non
dubito che il governo stia conducendo le sue iniziative e non nego che
queste richiedano necessaria riservatezza, saggia prudenza e tempi
opportuni, ma è fortissimo il rischio che tutto ciò venga inteso
dall’interlocutore (il regime di Al-Sisi) come una forma di
subalternità.
Quali sono state e sono le «forme di pressione» che il ministro degli Esteri ha detto ripetutamente di voler esercitare?
E,
mentre viene chiesto da più parti che quel paese sia dichiarato «non
sicuro», come spiegare che il sito della Farnesina, alla voce Egitto,
non contenga il minimo accenno alla sorte subita da Giulio Regeni?
Appena un particolare, ma che rivela l’eco stridula di un’ambiguità
irrisolta.
Nessuno, penso, può ritenere che il ruolo
geo-strategico dell’Egitto verso la minaccia rappresentata da Daesh o
l’importanza delle relazioni diplomatiche e commerciali tra i due paesi
siano particolari trascurabili, ma la domanda vera è un’altra: è
possibile che lo scenario politico-militare della regione e i legittimi
interessi economici riducano la questione della tutela dei diritti
fondamentali della persona (di Giulio Regeni e di migliaia e migliaia di
anonimi egiziani) a una insignificante questione di dettaglio?
Se
così fosse, non si tratterebbe solo di una ulteriore e crudele
frustrazione per i genitori di Regeni, bensì di una dichiarazione di
resa del nostro governo e di un disastroso fallimento della politica
tutta.
* L’autore è senatore del Pd