il manifesto 19.6.16
Una generazione senza eroi
Commedie
all'italiana. La storia dell’«eroe borghese» riletta allo specchio del
pessimo invecchiamento di chi ha iniziato a fare politica nei Settanta o
con la solitudine di un tempo «liquido»
di Marco Revelli
Sono
state settimane pesanti quelle in cui Matteo Renzi ha provato a
sovrapporre la sua crociata per il sì al referendum costituzionale
d’autunno alla campagna per i «suoi» sindaci alle amministrative, prima
di accorgersi dell’errore commesso e farsi prudentemente da parte.
Le riforme sfumate di grigio
Personalmente,
settimane di sofferenze, e anche di delusioni, di fronte alle
giravolte, ai voltafaccia, ai sorprendenti mutamenti di campo, in
biografie che ci si poteva aspettare proiettate in tutt’altra direzione,
a cominciare dalla desolante intervista di Roberto Benigni, passato
repentinamente dall’apologia della «Costituzione più bella del mondo»
alla sua possibile rottamabilità un tanto al chilo.
O dalle
esternazioni assai poco filosofiche ma molto ciniche – miseria del
realismo politico – di Massimo Cacciari (la riforma fa schifo ma è
comunque un cambiamento…).
Per non parlare di quello strampalato
ed eterogeneo elenco d’intellettuali governativi (messo su in fretta si
direbbe al solo scopo di contrastare il blocco coerente dei
costituzionalisti del No, paradossalmente un po’ come fece a suo tempo
Giovanni Gentile al solo scopo di contrastare il Manifesto d’opposizione
di Benedetto Croce).
E dove, tra le cinquanta sfumature di grigio
che caratterizzano la massa, i pochi nomi che spiccano provengono da
mondi un tempo ribelli, o comunque schierati nel campo di una sinistra
«impegnata» che dovrebbe in qualche modo conoscere i fondamenti di una
dottrina democratica del diritto pubblico calpestati nel metodo prima
ancora che nel contenuto della cosiddetta «riforma Boschi».
Esattamente
negli stessi giorni ho riletto quello straordinario memoriale sullo
«stato del Paese» – sui suoi tanti vizi e sulle sue solitarie virtù –
che è Un eroe borghese: il racconto della vita e della morte di Giorgio
Ambrosoli, scritto con appassionata maestria da Corrado Stajano e
riedito opportunamente ora dal Saggiatore. L’ho fatto senza
un’intenzione precisa, un po’ per caso. Come si suol dire «senza
malizia» (anche se è vero che talvolta sono i libri che ti vengono a
cercare, e non viceversa…).
Ma l’effetto è stato sconcertante:
inevitabile il confronto tra i diversi profili umani. Le diverse
«morali», potremmo dire. O le diverse «antropologie», nel passaggio da
una generazione all’altra, da un «ambiente» a un altro, da una biografia
individuale a una collettiva.
La solitudine di Ambrosoli
Giorgio
Ambrosoli non è un uomo à la page. Un uomo pubblico per vocazione. Al
contrario. Appartiene, come scrive Stajano, «a una borghesia umbratile e
distaccata. Con gli stessi gusti, la stessa visione del mondo, le
stesse abitudini dei primi decenni del Novecento». Un uomo «fuori
tempo». Un conservatore, collocato agli antipodi della generazione che
proprio in quegli anni veniva rumorosamente radicalizzandosi a sinistra.
Le sue simpatie giovanili sono monarchiche, la sua cultura liberale,
legge Croce più che Sartre o il Marx dei Grundrisse, Del Noce più che
Maritain, concedendosi al massimo qualche condivisione per il «moralismo
critico del Mondo».
Vive acquattato nella sua professione
giuridica (avvocato milanese specializzato in diritto societario e
fallimentare), lontano dalla politica e dai partiti (nei confronti dei
quali possiede un’innata diffidenza). Lo si sarebbe definito, allora, un
«borghese piccolo piccolo».
Eppure quando il 27 settembre del ’74
– aveva 40 anni – il governatore della Banca d’Italia lo snida,
affidandogli il compito di Commissario liquidatore della Banca Privata
Italiana, il regno di Michele Sindona, si rivela un indomito
combattente.
Un uomo capace di resistere a minacce e seduzioni, a
richiami alla ragion di stato e a condanne da parte dell’Antistato (la
mafia), e di tenere la barra dritta, senza deviare di un millimetro,
senza ripensamenti o revisioni, fino alle estreme conseguenze, i tre
proiettili che lo fredderanno a mezzanotte dell’11 luglio 1979 sulla
porta di casa.
Che cosa ha permesso a quell’apparentemente grigio
«controllore dei conti», «incapace di fantasia e di accensioni» – scrive
Stajano -, di mantenere quell’assoluta, per certi versi feroce,
linearità di comportamento, e di convinzione, pur di fronte a laceranti
delusioni (lui, fedele uomo delle istituzioni costretto a misurarsi col
lato criminale di quelle stesse istituzioni e trovarsele nemiche).
Che
cosa l’ha determinato – come annoterà Cesare Garboli – a «interpretare
con irresponsabile, infantile, inverecondo attaccamento alla propria
immagine di uomo onesto il mandato che gli era stato affidato»,
nonostante la solitudine in cui fu lasciato da quello stesso stato di
cui era mandatario e che gli fece il vuoto attorno?
O forse grazie
proprio a quella «solitudine»: a quel suo esser stato sempre, in
qualche modo, un «uomo solo», abituato a rispondere a se stesso, ad una
sorta di «etica della convinzione» più privata che pubblica, più morale
che politica, capace di intendere l’appello del motto «fai quel che
devi, accada quel che può» perché in qualche misura indifferente al
richiamo del consenso e del successo, o alle suggestioni di un
machiavellico realismo.
Ma per noi «tutto è politico»
Esattamente
quello che è mancato alla generazione successiva – alla mia generazione
– nata, si può dire, «in pubblico». Nel liquido amniotico del
collettivo. Nel flusso caldo della massa in movimento e nel culto del
protagonismo, che faceva apparire patetica e inattuale l’etica dei
principii in nome di un’opposta, pragmaticissima e politicissima, –
machiavellica, appunto – «etica dei risultati»… Di una ricerca quasi
ossessiva di sé nell’azione.
Forse è quella mancata abitudine alla
solitudine che spiega le tante contorsioni (e conversioni) successive, i
salti più o meno mortali, o anche solo i mutamenti d’opinione, insomma,
il percorso zigzagante che ha caratterizzato le generazioni nate da
quelle stagioni. Con le dovute eccezioni naturalmente (che non sono
poche, seppur quasi sempre oscurate). Ma anche con molte, spesso
inattese, conferme.
Perché per chi è cresciuto all’insegna del
perentorio motto secondo cui «tutto è politico», l’idea di perdere
politicamente, o di uscir fuori dal cerchio magico dell’azione politica,
equivale a una caduta irreparabile nel vuoto. A un diventar nulla. E la
prospettiva di perdere visibilità pubblica, sia essa la firma su un
giornale importante, una comparsa in tv o semplicemente continuare a far
parte della conversazione nei circuiti che contano risulta
insopportabile. Una sorta di morte virtuale, nell’epoca in cui la sfera
mediatica ha assorbito e dissolto ogni materialità sociale.
«Così
ci rende vili la coscienza…», direbbe Amleto. O forse, come sembra
suggerire il recentissimo libro di Paul Ginsborg e Sergio Labate,
Passioni e politica, la caduta delle passioni collettive in cui si era
radicato, ex origine, il nostro Io, ha consegnato buona parte di noi
alla sola passione individuale che l’ideologia dominante e unica
permette, il narcisismo, l’amore incondizionato di sé. La vera «passione
senza legami». E all’unica risorsa capace di placarne la fame: il
riconoscimento da parte del potere. O del mercato, il che è lo stesso.
Feticci,
ogni volta evocati in nome del «realismo». Oppure ancora – per
moltiplicare le ipotesi – la decostruzione dei solidi insediamenti
sociali di allora nella baumaniana società liquida ha costituito, per
chi si considerò intellettualità massificata «al servizio della
composizione tecnica e politica di classe» una sorta di liberi tutti. Un
dostojevskiano «se dio non esiste tutto è permesso» che ha inaugurato
la fuga senza fine da se stessi. O la transumanza – come ha suggerito
qualcuno malignamente – dal «potere operaio» al potere sans phrase.
E
poi… Poi ci sono le tecniche della seduzione e della convinzione o
della coazione di cui il libro di Stajano contiene un’ampia descrizione
(si leggano le pagine sul maresciallo Novembre): quelle con cui il
potere si compra il consenso, o il tacito assenso, o anche solo il
silenzio, alternando promesse e minacce, complici strizzate d’occhio e
severe allusioni in quell’atmosfera di costante ambiguità che
costituisce il sottofondo oscuro di un’eterna Italia, dove si lascia
intuire che basta in fondo poco per trovarsi «dalla parte giusta», tra
la schiera benemerente degli «amici» o, viceversa, in quella, oscurata,
dei «nemici» (ad Ambrosoli sarebbe bastata una firmetta per uscirsene
dalla vicenda con tutti gli onori)…
Naturalmente so benissimo
quale abissale distanza separi le due vicende, protagonisti e contesto
storico. E quanto incommensurabili siano le due traiettorie: quella da
tragedia dell’«eroe borghese», che vi perse la vita. E quella da
commedia all’italiana della «generazione senza eroi», che da perdere ha
solo qualche brandello di residua visibilità.
La densità del «mestiere»
E
tuttavia, all’intersezione tra le due, un punto di verità emerge:
quanto importante sia, nella definizione del proprio grado di integrità,
il radicamento in una qualche densità di mestiere. La cura e fedeltà
alla propria professione, per dirla col Candide voltairiano l’attenzione
al «proprio orto» senza troppo svolazzarvi intorno in cerca di
riconoscimento, sia essa far bene il contabile o il costituzionalista,
l’insegnante l’artigiano lo scienziato il tecnico o il filosofo.
E
naturalmente lo scrittore-giornalista, com’è la voce narrante di questa
storia italiana, Corrado Stajano, «uno di noi, un cittadino come noi,
che si rompe la testa sulla documentazione di un delitto incredibile e
si fa le nostre stesse domande» (Cesare Garboli).