giovedì 16 giugno 2016

il manifesto 16.6.16
Il giardino dove il tempo si è fermato
Commedia. In sala da oggi «La casa delle estati lontane», opera prima di Shirel Amitai: una storia privata che riflette quella di Israele
di Cristina Piccino

Del giardino sono rimaste soltanto le erbacce che crescono intorno alla tomba dell’asino, Raspuntin. «Non è un nome per asini questo» ripete un po’ ironico quel ragazzino arabo che appare e scompare con impertinenza raccogliendo di nascosto le olive a Cali (Geraldine Nakache). Insieme alle sue sorelle, Darel e Asia, la giovane donna è tornata nella vecchia casa di famiglia in Israele per venderla. La maggiore, Darel (Yael Abecassis) si oppone, la minore Asia ( Judith Chemla) che ha ereditato «tutta l’eleganza delle madre» – come dice il vecchio amico del padre – è sperduta, irrequieta, sempre in viaggio sia l’India o il deserto, un vagabondaggio che sembra quasi una predestinazione.
E poi è vecchia la casa, gli impianti elettrici non sono a norma, premi il pulsante della luce e parte il ventilatore, premi il ventilatore e si accende la luce. Le pareti hanno perso di colore nel tempo, le cose dei genitori morti sono rimaste lì accatastate a riempirsi di polvere e di serpenti. Loro però continuano a agitarsi tra quelle mura, come se niente fosse, come se fossero ancora lì con le partite a scacchi, le chiacchiere in giardino, il desiderio di pace coltivato da anni che finalmente in quel 1995 del governo Rabin sembra divenuto possibile, così vicino da crederci. Sono fantasmi ma molto «reali», e alle figlie danno consigli, gli chiedono di restare, di credere in sé stesse, di credere nei loro sogni, senza imporre nulla, con la delicatezza svagata e dolce di un padre e una madre amorosi – a cui danno vita con grazia Pippo Delbono e Arsinee Khanjian.
La casa delle estati lontane è il film d’esordio di Shirel Amitai, cresciuta sui set di Jacques Rivette , Desplechin, Claire Simon – con la quale ha anche scritto la sceneggiatura di Gare du Nord – che lo ha girato nella sua vera casa di famiglia intrecciando l’appuntamento delle tre protagoniste per risolvere le loro questioni private – il titolo originale è Rendez-vous a Atlit – a quello con la Storia nel ’95, l’anno degli accordi di pace tra Rabin e Arafat.
Nel giardino attraversato da reminiscenze cechoviane, il tempo sembra essersi fermato: vivi e morti si ritrovano a discutere, passato e presente, memoria e futuro si fondono. E proprio come nelle piece di Cechov i passaggi invisibili si legano alle emozioni dei protagonisti, alle loro scelte, alle incertezze dell’esistenza e alla paura di cambiare.
Cali, la sorella di mezzo, diviene il personaggio su cui la regista concentra questo movimento, lei che è la più determinata a liberarsi della casa per comprarsi finalmente l’appartamento a Parigi dove vive, inizia a tentennare, a avere dei dubbi, a fare scoperte impreviste. Forse è solo l’essenza lontana dell’infanzia coi suoi giorni di spensierata felicità che riecheggiano in quelle stanze, ma l’ostinazione che mette nel sistemare il giardino somiglia alle domande della vita. Poi c’è quel ragazzino che la notte appare nei suo sogni, è vero o anche lui è un fantasma come gli altri?
Il mondo esterno entra in quel microcosmo che non lasceremo quasi per tutto il film dal vecchio tubo catodico in bianco nero che il padre si affanna a sistemare a colori. Anche se la regista ha portato sin dall’inizio nel giardino delle tre sorelle la realtà. Le loro vite e quelle di chi le circonda, infatti, riflettono quella di Israele, la sua Storia : la diaspora, l’esilio, l’erranza, la ricerca, l’appartenenza, il rapporto con la terra. E la parte di chi lotta e ha lottato per la pace, per trovare una fine al conflitto, la sconfitta quel 1995 quando qualcuno spara a Rabin – la sequenza molto bella, in automobile, con l’autoradio, nello sgomento di una notte di spiagge deserte e luci lontane.
Shirel Amitai racconta però tutto questo con una leggerezza intelligente, la sua regia predilige la commedia affidata soprattutto alle sue interpreti la cui bravura, purtroppo, si perde nel doppiaggio italiano. Da qualche parte, ci dice, come accade in quel giardino la resistenza è ancora possibile, e forse anche inventare un futuro diverso.