il manifesto 12.6.16
Così il migration compact rischia di restringere libertà e diritti
di Raffaele K. Salinari
Sin
dalla loro nascita ufficiale come componente integrante della Guerra
Fredda, nel 1946 a opera del presidente Usa Truman, gli aiuti allo
sviluppo sono sempre stati in qualche modo condizionati e condizionanti.
Allora, parlando al Congresso, Truman disse che il ruolo americano era
quello di portare ogni paese che avesse seguito il suo modello economico
allo stesso livello di vita degli statunitensi. Un sogno che si è poi
rivelato un incubo per molti.
Nella storia degli aiuti allo
sviluppo i periodi più significativi partono dalla cosiddetta
«cooperazione tecnica» degli anni ’60, l’idea cioè che una sufficiente
infrastrutturazione di quello che allora veniva definito Terzo Mondo,
avrebbe portato le nazioni appena indipendenti a un livello di
accumulazione del capitale tale da consentire l’avvio di un ciclo
positivo, di ricchezza per tutti.
In realtà gli ingenti prestiti
forniti a governi, perlopiù dittatoriali, essendo stati eliminati tutti i
leader democratici che rimettevano in discussione il modello di
sviluppo post coloniale – vedi Lumumba, portarono a due evidenti
risultati: costruire infrastrutture funzionali all’esportazione delle
materie prime a basso costo, e un indebitamento il cui servizio sarebbe
esploso vent’anni dopo consentendo ai donatori di gettare una seria
ipoteca sulla sovranità economica e politica di quei Paesi.
Negli
anni ‘70 la competizione Est-Ovest fa propendere invece per un approccio
più «di base», a causa delle rivoluzioni in Nicaragua,
dell’indipendenza di ispirazione socialista delle ex colonie portoghesi e
della sconfitta Usa in Viet Nam, nonché dell’inimmaginabile rivoluzione
iraniana.
Nascono allora le politiche di cooperazione basate sui
«basic needs»: acqua potabile, cibo, prevenzione sanitaria e una
attenzione alle zone rurali, allora ancora prevalenti. Tutto questo,
funzionale ad «asciugare l’acqua» in cui nuotava il potenziale pesce
rivoluzionario, tramonta bruscamente dopo la caduta del muro di Berlino
per essere sostituito dagli aiuti condizionati al rispetto dei diritti
umani e della democrazia; in concreto un assist ai nuovi governi
multi-partitici che in quegli anni scalzavano i residui del socialismo
africano e si adeguavano al nuovo corso liberista.
Molte volte i
Governi africani si sono lamentati di queste condizionalità che, sotto
l’egida dei diritti umani tendevano a profilare forme di gestione
privatistica della cosa pubblica che mantenessero inalterate le
relazioni tra paesi produttori e consumatori. Prova di questo strumento
sono anche le varie «rivoluzioni arancioni» in Europa o la situazione di
alcune democrazie popolari in America latina.
Adesso, ultimo ma
non per importanza, arriva nel Migration Compact, ove risulta centrale
la condizionalità inerente alla gestione dei flussi migratori.
È
una ennesima evoluzione, o involuzione, dunque, di prassi molto ben
consolidate nel tempo, e che ha mostrato la sua indubbia efficacia nel
condizionare le politiche estere e interne di interi continenti.
In
particolare la sottolineatura sul ruolo del settore privato la dice
lunga su cosa rischiano di essere queste politiche di aiuto alla
gestione dei flussi migratori: un’ulteriore messa a punto delle
divisione internazionale del lavoro, operata dalle stesse multinazionali
che hanno deciso che i «veri» diritti umani non sono quelli universali
ma solo quelli di chi se li può comperare.
Dunque bisognerà
vigilare su cosa realmente sarà proposto e soprattutto riproporre come
criterio di valutazione e di efficacia quello dell’equità e della
democrazia economica nei Paesi di emigrazione, onde evitare che la crisi
dei migranti diventi, ancor di più, un’occasione per restringere le
libertà su scala planetaria in nome della sicurezza delle frontiere
europee.