il manifesto 12.6.16
Lavoro, la «segregazione» all’italiana
Immigrazione.
Fondazione Di Vittorio: i lavoratori stranieri guadagnano il 27% in
meno e rischiano molto più degli altri. Secondo il centro studi della
Cgil gli immigrati producono l’8,6% del Pil e coprono il 63% dei lavori
più umili o faticosi (braccianti, facchini, pulizie). Sono i primi a
essere licenziati e il divario con gli «autoctoni», soprattutto donne,
si aggrava
di Riccardo Chiari
FIRENZE Con il
ricatto della Bossi Fini sempre pendente come una spada di Damocle sul
proprio futuro, gli immigrati in Italia hanno affrontato gli anni della
grande crisi caricandosi sulle spalle più di un peso, e riuscendo
comunque a produrre sempre più ricchezza.
Pagando però prezzi
molto salati. A partire dal salario, più basso di circa un quarto
rispetto allo stipendio dei lavoratori italiani (-24,2%), con un
differenziale che arriva al -27,6% per le donne.
E con, in
parallelo, la conferma di una vera e propria segregazione occupazionale
che, al di là del titolo di studio, li porta invariabilmente a lavorare
nei settori «a basso valore aggiunto»: dai servizi alla persona
all’agricoltura, passando per il comparto delle costruzioni e gli
impieghi in alberghi e ristoranti. Settori dove la concorrenza con
l’offerta di lavoro degli autoctoni – al di là dei deliri leghisti –
risulta marginale. E dove comunque gli immigrati sono stati i primi ad
essere sacrificati nel momento in cui la crisi azzannava.
È nitida
la fotografia che emerge dallo studio «Le conseguenze della crisi sul
lavoro degli immigrati in Italia», realizzato dalla Fondazione Di
Vittorio della Cgil nell’ambito delle attività dell’Osservatorio sulle
migrazioni, che ha analizzato le condizioni dei lavoratori stranieri
occupati in Italia nel quinquennio 2011-2015.
«Dal punto di vista
della “segregazione occupazionale” non ci sono novità – osserva Sally
Kane, responsabile del Dipartimento politiche immigrazione della Cgil –
gli immigrati fanno perlopiù i lavori più umili. Ma fanno anche quelli
più pericolosi, basta vedere i dati degli infortuni sul lavoro.Resta
confermato anche che guadagnano meno, a parità di impiego, degli
autoctoni. Piuttosto, con la crisi, sono stati loro i primi a essere
espulsi dal mercato del lavoro – spiega Kane – mentre là dove
l’occupazione è stata mantenuta, come nell’agricoltura, è aumentato il
lavoro nero, ed è aumentato quindi il differenziale retributivo».
Pur
contribuendo sempre di più a produrre ricchezza (arrivata oggi all’8,6%
del Pil nazionale), nella pratica un lavoratore immigrato dipendente a
tempo pieno guadagna in media 362 euro netti meno di un italiano: tra
gli uomini -350 euro, e tra le donne -385 euro.
Quanto al tasso di
disoccupazione, nel 2015 è stato più alto di quasi cinque punti
rispetto alla forza lavoro autoctona (16,2% contro 11,4%, vedi sotto).
Così come sono aumentate precarietà e part-time involontario.
«Non
solo – puntualizza Sally Kane – dalle analisi di Emanuele Galossi, un
ricercatore molto bravo, emerge come ad esempio nel settore della
logistica merci, che attira molti immigrati, con i cambi di appalto i
lavoratori siano costretti ad accettare livelli contrattuali inferiori, o
anche diminuzioni di orario di lavoro. Di qui le minori retribuzioni,
accettate per forza di cose da chi non può permettersi, a causa della
Bossi Fini, di perdere l’impiego».
Nella ricerca si segnala come
l’incidenza degli immigrati sul totale degli occupati sia arrivata
comunque al 10,5%, con un aumento dell’1,5% (+329 mila unità).
Al
tempo stesso il tasso di disoccupazione nel 2015 è stato più alto di
quasi cinque punti percentuali rispetto a quello relativo alla forza
lavoro italiana (16,2% contro 11,4%). È stato evidenziato peraltro come
il tasso di sofferenza occupazionale – un indicatore che comprende
disoccupati, cassintegrati e scoraggiati disponibili a lavorare – degli
immigrati è stato nel 2015 pari al 15% (604 mila persone), 3,2% sopra
quello italiano. Mentre il tasso di disagio (precari e part time
involontari sul totale degli occupati di 15-64 anni) è arrivato al 30%
(706 mila persone), quasi il doppio di quello italiano.
Infine il
tema delle professioni e delle qualifiche: gli immigrati sono occupati
nella maggior parte dei casi con mansioni poco qualificate, nonostante
che oltre la metà di loro risieda in Italia da oltre dieci anni.
Le
prime dieci professioni in cui sono impiegati (fra cui pulizie, servizi
domestici, facchini, braccianti, ecc.) coprono quasi due terzi
dell’occupazione straniera (63%) contro poco più di un quinto di quella
italiana (21%).