il manifesto 10.6.16
Mohamed Habassi. I lati oscuri di un calvario
Un
mese fa il raid punitivo nel quale veniva torturato e ucciso a Parma il
trentenne tunisino L’inchiesta prosegue, ma uno dei misteri legati al
caso resta il silenzio dei media nazionali su una vicenda così estrema
Un delitto sul quale aleggia l’ombra del rimosso non sublimato della nostra società
di Annamaria Rivera
Un
mese fa, a Basilicagoiano, frazione a pochi chilometri da Parma, un
cittadino tunisino sui trent’anni, Mohamed Habassi, veniva ucciso nel
modo più atroce – con sevizie, mutilazioni, torture – da quello che,
solo per l’analogia nel modus operandi, ho definito una sorta di
squadrone della morte: concordato e capeggiato, dicono finora le
indagini, da due “insospettabili” benestanti parmigiani
ultraquarantenni, rei confessi, a loro volta spalleggiati da quattro
operai romeni, reclutati per il raid mortale.
Numerosi sono i nodi
che l’inchiesta giudiziaria ha da sciogliere: non da ultimo quello del
lungo calvario inflitto alla vittima senza che alcuno intervenisse,
nonostante le grida laceranti; se non i carabinieri, ma tardivamente,
quando la morte era ormai sopraggiunta dopo una non breve agonia.
Oltre lo schema anomalo
Tuttavia,
uno dei misteri di questo caso resta il silenzio glaciale dei media
nazionali: solo parzialmente spiegabile, come ho già scritto, con lo
schema “anomalo” del delitto, che vede “l’extracomunitario” nel ruolo
della vittima e due cittadini italiani nel ruolo dei principali
carnefici. Eppure l’oggettiva ferocia dell’assassinio avrebbe dovuto
farne una notizia degna di qualche attenzione su scala nazionale.
La
notizia ha potuto varcare i confini della cronaca locale solo il 25
maggio scorso, allorché questo giornale ha voluto ospitare l’articolo a
mia firma: subito ripreso da MicroMega-online, comparso, anche in
francese, in vari siti e blog, ampiamente condiviso dai social network.
Poco dopo, a occuparsi del caso sono state Radio 3, con Tutta la città
ne parla e Radio Radicale. Infine, ilfattoquotidiano.it gli ha dedicato
il titolo di apertura dell’edizione del 1° giugno scorso, sia pur con
ventuno giorni di ritardo.
Qualche reazione c’è stata
Sul
versante politico-sociale, qualche reazione c’è stata, a Parma, sebbene
tardiva e inadeguata alla gravità dell’accaduto. Lo scorso 28 maggio,
nel corteo promosso dal Coordinamento antifascista e antirazzista (nato
per iniziativa dell’Anpi), un gruppo di cittadini tunisini sfilava con
uno striscione che chiedeva giustizia e verità per Mohamed. Nel
contempo, il collettivo «Rete Diritti in Casa» pubblicava e diffondeva
un comunicato dal titolo «Morire di sfratto: quando il valore di una
vita vale meno di un affitto».
Nonostante questi sussulti di
attenzione, ciò che è prevalso, e prevale ancora, è la tendenza a
ignorare, minimizzare o banalizzare un caso che pure rappresenta uno
degli omicidi più feroci che siano mai stati concepiti e compiuti, in
Italia, da persone ritenute insospettabili e ben integrate nella
società. Perfino à la page, si potrebbe dire dei due rei confessi, Luca
Del Vasto e Alessio Alberici: il primo, il vero ideatore, è titolare del
ben noto Buddha Bar di Sala Baganza e il secondo è grafico e fumettista
di una certa fama locale.
La scientifica sul luogo del delitto
Ricordo
che il movente addotto risiederebbe nel fatto che la vittima non
pagasse la pigione del piccolo appartamento in cui abitava, di proprietà
della compagna del primo. Che questo sia oppure no il vero o il solo
movente (cosa di cui c’è ragione di dubitare), il fatto stesso che i due
carnefici lo abbiano pensato come credibile e commisurato a
un’esecuzione così feroce rivela la loro miseria morale e una percezione
distorta, se non delirante, della realtà.
Ma forse i due non sono
che gli interpreti, sia pur estremi, di quel senso comune degradato,
costituito da razzismo, cinismo, prevaricazione, individualismo
proprietario, inconsapevolezza del male, che percorre la nostra società.
E che favorisce la negazione dell’umanità dell’altro, ancor più se
l’altro è una non-persona per la stessa società.
Senso comune degradato
È
il medesimo senso comune che trapela – sia pur su scala minore e
virtuale – dalla gran mole di commenti al pezzo de ilfattoquotidiano.it
già citato: qui il tema largamente dominante (per fortuna, non l’unico) è
«la latitanza delle istituzioni» che non tutelano «il diritto dei
cittadini alla proprietà privata». «La proprietà è sacra, eccome»,
chiosa qualcuno senza un filo d’ironia. Un tale, che si nasconde dietro
uno pseudonimo macabro, si dice dispiaciuto per la morte della compagna
italiana di Habassi, «ma non per quella di quest’individuo che non
pagava l’affitto». Un altro si chiede: «Cosa ci faceva in Italia uno
spacciatore di droga tunisino, che occupava abusivamente una casa senza
versare un centesimo al proprietario?». Una commentatrice ne trae la
morale: «Non conviene affittare, non sai mai chi ti metti dentro»,
signora mia. C’è perfino chi si spinge fino al classico: «La vittima se
l’è cercata». E chi conclude in modo che vorrebbe essere icastico:
«Nessun innocente, nessuno stinco di santo, nessuna vittima, manco il
morto».
Banalità del male
Come si vede, l’universo culturale
e morale dei due assassini (e forse anche dei quattro operai romeni) è
in sintonia col senso comune che si esprime in questi commenti a dir
poco cinici. Che neppure l’efferatezza estrema dell’omicidio – il quale,
ricordiamo, ha reso doppiamente orfano un bambino – valga a suscitare
emozione, pietas, orrore, sgomento o almeno inquietudine è indizio di
quanto il male si sia banalizzato. Non c’è bisogno di scomodare Hannah
Arendt per dedurre che, in fondo, la “normalità” dei commenti indignati
per le rate di affitto non pagate dalla vittima (anzi, dalla non-persona
divenuta perciò non-vittima) è in qualche misura simmetrica
all’”anormalità” del feroce assassinio.
Nel comunicato-volantino
della «Rete Diritti in Casa» si stigmatizza la «mancanza di pudore di
chi prova a giustificare, di chi cerca attenuanti, di chi getta fango su
chi ormai non si potrà più difendere». Ed è vero che, anche tra i
solerti giornalisti cui spetta il merito di aver garantito almeno
l’informazione su scala locale, è prevalsa e prevale, con qualche
eccezione, la tendenza a mettere in cattiva luce la vittima, piuttosto
che indagare sul lato oscuro dei due principali attori dell’orrendo
supplizio.
Insospettabili precedenti
Sebbene qualificati
come insospettabili, i due avrebbero «piccoli precedenti per spaccio»,
secondo parmapress24.it e qualche altra fonte minore. E non solo.
Sarebbe bastata una rapida ricerca in rete per scoprire che i due amici
inseparabili, anche nell’orrore, nel 2004 parteciparono insieme a un
corso di «esplosivistica di base», ottenendone la licenza di «fochino»,
cioè di maneggiatore di esplosivi. Si ammetterà che non è consueto che
dei cittadini non destinati a fare i minatori si specializzino in
esplosivi.
Certo, quest’ultimo è solo un dettaglio, sicuramente
secondario. E tuttavia esso ci rivela come su questo delitto estremo
aleggi un’Ombra, per dirla in termini junghiani, rimossa e perciò non
sublimata: il lato oscuro della Parma borghese, ma in fondo della nostra
intera società, riflettendosi sul piano degli umori e delle condotte
individuali, può far sì che l’altro divenga il bersaglio della
proiezione del rimosso. Delle volte, come in questo caso, fino al
martirio.